Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2021  aprile 10 Sabato calendario

Negli alberghi per sole donne di Manhattan


Sei una ragazza cresciuta nel Sud degli Stati Uniti, stai per diventare una giovane donna, un giorno partirai per New York e andrai a vivere in un albergo per quelle come te. Dividerai la stanza con un amico del Kentucky, per un po’ somiglierete a una coppia, anche se a entrambi piacciono i maschi. Ti capiterà di incontrare Billie Holiday dopo uno dei suoi tanti concerti. Ti capiterà di innamorarti, di viaggiare in Europa, di sposare un poeta famoso che non nominerai mai direttamente nel tuo libro più importante, quello che chiamerai Sleepless Nights, e che arriverà come qualcosa di inaspettato e prezioso dopo anni a scrivere dei libri di altre donne, dopo anni a cercare di interpretarne il lavoro.
Molte cose verranno, molte cose andranno, nella tua vita come nella tua memoria. E così farai tu, nella testa di chi te li leggerà per la prima volta. Sarai mareale, lunare, curiosa come Sebald, laconica come Cheever. Una simbolista. Una maestra della forma sognante e franta, che in tante impareranno e proveranno a interpretare a modo loro, da Jenny Offill a Sarah Manguso a Maggie Nelson. Sarai difficile da tradurre in qualsiasi lingua che non sia la tua, perché in qualche modo l’inglese che usi è solo tuo. Una lingua magica e privata, dalla sintassi misteriosa che imita il rapimento del sonno, e il languore della veglia. I sistemi di allarme dei sogni. Il liquido amniotico degli incubi, e delle rimembranze. Dirai molte cose su di te, e questa, tra tutte, sarà per me la dichiarazione più stabile: «Tutto mi è arrivato, e tutto mi è stato tolto, perché mi sono sempre spostata da un posto all’altro». Ci ho creduto a occhi aperti, e ci ho creduto a occhi chiusi, ragazza del Sud.
Hai compiuto molti miracoli con questo libro, e tra questi c’è anche l’aver individuato l’epigrafe perfetta per tutte le ragazze che hanno sofferto di landlessness – una parola di Herman Melville a cui hai dedicato una biografia. La sensazione di essere a tratti senza terra, e viva solo per mare, o per una città verticale come New York. Ma questo non è un romanzo fatto di navi o di grandi imprese oceaniche; non sei un intrepido marinaio che un giorno si scopre poeta. In fin dei conti sei una donna, tu.
Dopo aver trascorso diversi mesi con Elizabeth Hardwick, mi è venuto spontaneo rivolgermi a lei come se le stessi scrivendo una lettera. Quel che più mi è mancato non è stato solo un confronto con chi potesse sciogliere alcuni dubbi relativi a passaggi misteriosi nel testo, ma anche un dialogo che andasse al di là di Notti insonni, e mi spiegasse come si fa questo lavoro di «memoria trasformata», e come si riesce a mantenere un’aderenza così poetica tra lavoro e vita, senza «ridursi» a essere solo sé stessa. Nella sua recensione al libro, Joan Didion usa una parola cruciale per capire lo stile di Hardwick, e oserei dire il suo metodo: «flutto di fondo», undertow in inglese. Così come penso che per capire Notti insonni sia centrale la parola tideal, «mareale», che l’autrice usa a proposito della femminilità di sua madre che poco si interroga sul suo destino, e accetta le cose della vita. Joan Didion, come tante lettrici e lettori, deve aver sentito il mistero di questa forza di Hardwick, la forza del flutto di fondo e dell’andirivieni. Dal Sud a cui sempre torna, dalle vecchie case in giro per il Nord America. Dalle vite delle amiche e degli uomini che ha amato. Forse è proprio questo andirivieni ad averle impedito di scrivere un memoir convenzionale, un genere caratterizzato da soglie e da fratture molto riconoscibili: l’infanzia, la giovinezza, il trauma, la vita adulta, la malattia, il matrimonio, il divorzio, la morte, la maternità, la non maternità; soglie che possono essere in ordine sparso, ma sono comunque riconoscibili.
La stessa Didion, una maestra della scrittura in prima persona, usa la sua scrittura per precisare l’esistenza di queste soglie. Ha una mitologia molto salda della sua infanzia californiana, ha affrontato la dinamica del lutto in maniera ritmica ma tutto sommato lineare, e quando se n’è andata da New York, ha raccontato quell’addio come se fosse per sempre: nel famosissimo saggio Goodbye to all that del 1967, a ventinove anni, Didion saluta la sua città adottiva come se stesse lasciando un amante, smarrendo le ragioni per restare. Anni dopo tornerà – è la città in cui vive ancora adesso -, ma in qualche modo è come se quella frattura non si fosse mai ricomposta. La New York di Elizabeth Hardwick, al centro di alcune delle pagine più belle di questo libro, somiglia a quella di Didion, ma è un’amante che non verrà lasciata mai. (Non a caso lei ci vive da nubile, e soprattutto da donna separata.)
Hardwick torna sempre alla città che da ragazza l’ha resa una giovane donna e poi l’ha trasformata in una scrittrice, e ricorda con inevitabile affetto un ambiente preciso in cui si è formata: la casa albergo per sole donne. Come Fran Lebowitz, come Esther Greenwood ne La campana di vetro di Sylvia Plath, come tante ragazze della sua generazione, Hardwick ha vissuto nelle residenze per sole donne – versioni più modeste dei Webster Apartments e del Barbizon – in cui le studentesse si rimescolavano alle lavoratrici, le nullafacenti alle artiste, i cuori romantici a quelli già involgariti dall’esperienza. Sono residenze gradualmente scomparse dallo scenario, così come l’Hotel Schuyler frequentato ai tempi della Columbia insieme al suo amico del Kentucky.
L’esistenza di queste abitazioni temporanee, promiscue, magnifici osservatori da cui contemplare sia l’ascesa del talento sia il disfacimento di chi le abita, è funzionale alla struttura di Notti insonni, uno spazio da cui si entra e si esce sentendo palpitare contemporaneamente sia la nostalgia sia la brama di futuro, e in cui si perde il conto degli anni che passano. Scrivendo di sé, Hardwick non si riduce, ma si fa esplodere nel tempo. Il suo passato sta sempre per accadere, il suo futuro è già consumato. Il suo metodo è la rifrazione costante, non è il contenimento, ed è qui che Notti insonni si distingue dai memoir, che fanno del contenimento di sé, del proprio raccoglimento, un principio formale.
Una donna capace di una rifrazione costante. Se dovessi sintetizzare che tipo di scrittrice è stata Elizabeth Hardwick, direi questo. Faceva parte di una generazione di intellettuali gravitanti attorno alla Partisan Review e alla New York Review of Books – di cui è stata fondatrice -, che scrivevano saggi, romanzi, poesie, curavano traduzioni, scoprivano talenti e si occupavano di critica culturale. Era l’esatto opposto della scrittrice «esperta» in qualcosa, magari militante, che però si specializza in un argomento e persevera in quello per tutto il percorso, un fenomeno comune tra le intellettuali e gli intellettuali contemporanei, forse per districarsi in mezzo alla selva di pagine pubblicate e per affermarsi con maggiore coerenza, o per difendersi dallo spettro altrettanto diffuso del pensiero generico, e dell’opinione buona per tutto.
Per Hardwick erano lo stile e la curiosità, la capacità di osservazione e di scrittura ad avere la meglio sui temi, a creare una poetica, a manifestare una presenza. Era la voce a giustificare l’interesse. E infatti, esclusi alcuni saggi letterari più ideologici e taglienti, questo suo interesse risulta quasi sempre a fuoco, quasi sempre appassionato, genuinamente coinvolto. Persino quando esercitava una voce più critica e rigorosa: la severità richiede passione, la pretende. In un’epoca di competenze slabbrate o di maestrie in generi molto piccoli e specifici, Elizabeth Hardwick fa sentire la mancanza di un tipo particolare di scrittrice, che non è stata né organica, né specialista. Ancora una volta, la forza di Hardwick dipende dal suo andirivieni tra città, libri, simboli e mostri d’arte, perché questo andare non è mai uno sbandare fine a sé stesso, un errare senza consapevolezza, ma un esercizio di libertà, un’esperienza esplorativa magnetica e precisa.
Eclettica, franta, fedele ai miraggi, violacea, complice della notte, dolce, albeggiante, alla deriva come Flaubert quando si mette a evocare stoffe, colori, brume e aloni di candela nella sua Educazione Sentimentale, archetipica, corrotta dalla memoria, moderna, persistente e ipnotica, Elizabeth Hardwick permette a chi legge Notti insonni di fare da palombaro dentro a un oceano che somiglia a una vita. Mentre traducevo queste pagine, qualcuno mi ha raccontato di una visita recente dall’analista (una figura onnipresente nella vita di Hardwick, che per ventotto anni ha convissuto con la malattia mentale di Robert Lowell) in cui è emersa la seguente immagine, utile per descrivere la memoria: il graduale precipitare verso il basso di statue ingombranti, di manufatti pesanti, che a un certo punto atterrano sul fondale, e sono avvolti dalla sabbia che hanno smosso. La sabbia rende impossibile individuarne la fisionomia, all’inizio, ma lentamente si deposita sul fondo, e la memoria corrisponde alla lenta chiarificazione dell’oggetto, sempre esposto al moto ondoso. Elizabeth Hardwick, in questa immagine, è sia la statua che affonda, sia l’acqua magica che la circonda, sia la sabbia che prima la vela e poi la abbandona. Ed è, soprattutto, la visione incantata di quel che resta. —