La Stampa, 10 aprile 2021
Letta versus Salvini
Fereico Geremicca per La Stampa
Matteo Salvini di mattina. Mario Draghi di pomeriggio. E prima, dopo e a cavallo dei due colloqui, l’ormai abituale tourbillon di incontri e faccia a faccia. Insomma, Enrico Letta si è insediato in largo del Nazareno da nemmeno un mese e l’iniziale velocità che ha impresso al suo lavoro non pare calare. In quattro settimane ha incontrato Sergio Mattarella, Mario Draghi due volte, e poi Conte, Meloni, Salvini, Tajani, Di Maio, Crimi, i sindaci ed i governatori democratici, i leader delle organizzazioni sindacali e di categoria... Ha visto perfino Matteo Renzi. Un gran lavoro. Quanto piacevole è difficile da dire.Ad ogni modo: in queste settimane Letta ha ascoltato con attenzione gli interlocutori, ma con altrettanta attenzione li ha però informati intorno alle sue prime intenzioni. Che restano fondamentalmente due: cancellare le inutili nostalgie verso l’esecutivo giallorosso («Il governo Draghi è il nostro governo», ha chiarito fin dall’atto dell’insediamento) e ricostruire un nuovo centrosinistra da fondare su un rapporto – però – di esplicita competizione-collaborazione con il Movimento Cinquestelle e con lo stesso Conte («Sarà leader chi prenderà più voti» ). Verrebbe da dire che in una fase in cui la discontinuità sembra diventata un valore in sé (tra questo esecutivo e il precedente, nella gestione di chiusure e riaperture e persino nella qualità dei rapporti politici), Enrico Letta è quello che sembra averne impressa di più: e certamente non solo per scelta, ma per evidente necessità.
Andrebbe ricordato, infatti, il benvenuto ricevuto dal Direttore della Scuola di Affari internazionali di Sciences Po, a Parigi, una volta sbarcato a Roma. Da una parte, un segretario che gettava la spugna vergognandosi, se non del Pd, delle correnti del Pd (ed è bravo chi riesce a cogliere la differenza); dall’altra, un pugno nello stomaco da chi meno te lo aspetti (in questo caso Mattia Santori, leader delle “sardine” ): «Il Pd è un marchio tossico». Insomma: terra bruciata, più o meno, fuori e dentro il partito. Cambiare, introdurre un alto tasso di discontinuità, dunque, non era una libera scelta ma una pressante urgenza.
L’incessante lavorìo avviato da Enrico Letta è stato così paragonato da molti alla faticosa opera con la quale un ragno costruisce la propria rete. Il paragone è possibile. Bisogna però intendersi su chi – o cosa – dovrebbe finir catturato nella rete. Tradotto: su quali sono gli obiettivi che il segretario Pd intende raggiungere. Il primo, come accennato, sembra evidente: fare di Draghi e del suo governo un patrimonio del Pd, interrompendo il lutto dichiarato dopo la fine del governo giallorosso e segnando una cesura netta con una fase – quella ultima – fatta di «o Conte o morte» e di caccia (assai discutibile) ai «responsabili». Il problema, insomma, è riposizionare il Pd. E per raggiungere questo scopo, un altro obiettivo va facendosi sempre più chiaro: fare ancora di più del Partito democratico l’unico vero «nemico» della Lega. E di lui stesso l’alter ego di Mattia Salvini.
Non c’è occasione, infatti, che Letta perda per polemizzare col leader leghista. Le ragioni, ovviamente, non mancano: e il leader Pd non ne lascia passare una. Ieri mattina, i due si sono visti: torneremo a competere – hanno poi fatto sapere – ma ora siamo d’accordo che la missione numero uno sia tirare il Paese fuori dai guai. Pd e Lega si attaccano tutti i giorni, è vero: ma non con i toni talvolta truculenti di un paio di mesi fa. C’entra, certo, il fatto che sostengano lo stesso governo. Ma probabilmente non è tutto lì. Accade spesso che leader politici avversari finiscano per legittimarsi reciprocamente. Può accadere in maniera naturale, diciamo così, cioè in ragione dei loro incontri o scontri (si pensi a Moro e Berlinguer, a De Mita e Craxi, e perfino a Prodi e Berlusconi). Ma può anche avvenire per costruzione e scelta precisa: cercare lo scontro con il nemico per rafforzare la propria posizione tra gli amici. Non è detto che non sia proprio questo il caso della coppia Salvini-Letta.
Entrambi, infatti, sono alla ricerca di una legittimazione (o rilegittimazione). Il Capitano, ha un problema sempre più evidente alla sua destra, per la crescita irruenta della forza di Giorgia Meloni. Il distacco tra loro si è assai ridotto, ma la leader di Fratelli d’Italia lo ha già superato in quanto a fiducia e popolarità tra gli elettori. Chi dei due è davvero il leader del centrodestra?
Quanto a Letta, il Pd lo ha eletto all’unanimità: ma questo vuol dire quasi niente. Ha bisogno di imporre la sua leadership nel partito e nella costruenda coalizione. Diventare il nemico “numero uno” di Matteo Salvini sarebbe importante: ma potrebbe non esser scontato. Verrà il tempo, infatti, del ritorno in campo di Giuseppe Conte: ed eccoli, quelli sì – Salvini e Conte – due nemici veri. Se l’"avvocato del popolo” occupa il proscenio, la faccenda per Letta ed il Pd si potrebbe farsi complicata: come i sondaggi avvertono da tempo. Chi dei due, dunque, è davvero il leader del centrosinistra?
Nella rete di Letta deve naturalmente finirci – per restarne definitivamente prigioniero – anche il progettato ritorno ad una legge proporzionale, funzionale magari a estenuanti guerre di posizione ma non al corpo al corpo, al duello, a cui sembra puntare il neosegretario del Pd. Non solo: un sistema anche solo parzialmente maggioritario, infatti, assicura al partito più forte (ed al suo leader) un forte potere contrattuale, da far valere fin dal momento delle candidature. Inoltre, rende indispensabile stare in coalizione: frustrando sul nascere certe velleità “movimentiste” (Renzi, così per dire).
La rete, insomma, deve essere vasta e fitta. Lavoro non facile. Per intanto, dopo aver visto Salvini, ieri Letta è andato a colloquio da Draghi. Incontro fissato da tempo, è stato chiarito. Ma utile comunque per ripetere a Draghi che i continui smarcamenti di Salvini sono insopportabili: e che il Pd reagirà. Per difendere il governo, certo. Ma anche per riprofilare i democratici e il loro leader. Perché il tempo delle elezioni arriverà: e l’ex professore parigino stavolta non vuole farsi trovare impreparato.
Giovanni Orsina per La StampaL’ambiguità è da sempre la cifra di Matteo Salvini. Da quando più di sette anni fa, alla fine del 2013, è diventato segretario della Lega, è saltato a cavallo, in sequenza, di tre coppie di posizioni politiche ben poco compatibili l’una con l’altra.La prima coppia dissonante che Salvini ha cavalcato metteva insieme l’identità padana e quella nazionale. Come Umberto Bossi aveva ben compreso già negli ultimissimi anni del secolo scorso, la Lega Nord sarebbe potuta sfuggire a un destino di marginalità localistica soltanto alleandosi con un partito capace di prender voti in tutta la Penisola. Il collasso del berlusconismo, fra il 2011 e il 2013, ha messo in crisi questa strategia. Con un’aggravante: al posto di Forza Italia non stava emergendo nulla che potesse svolgerne la funzione. La transizione verso la Lega nazionale e nazionalista è stata per tanti versi una mossa obbligata, allora: se il partner più grande non c’era più, e se la sua crisi rendeva inoltre disponibili milioni di voti, diventava possibile e al contempo necessario far da soli. La presenza in Europa di una posizione politica sovranista che in Italia non era rappresentata da nessun partito ma che avrebbe potuto incontrare il favore degli elettori da un lato, la crisi migratoria dall’altro hanno fatto il resto.La seconda coppia Salvini l’ha cavalcata in tempi più recenti. Alle ultime elezioni politiche, nel 2018, si è presentato in coalizione con Forza Italia e Fratelli d’Italia, ma poi per un anno ha governato col Movimento 5 stelle. La Lega è passata insomma dal presentarsi come un partito di destra alleato con altri partiti di destra e contrapposto a quelli di sinistra, al proporsi come un partito populista alleato a un altro partito populista e contrapposto a quelli di establishment. Mentre a livello locale, peraltro, restava ancorato alla coalizione originaria. La terza coppia è storia di oggi: a farla breve, Draghi a Roma, Orbán a Bruxelles. Una riedizione della prima coppia, per certi versi: l’ingresso in maggioranza (Draghi) è stato sollecitato dai ceti produttivi dell’Italia settentrionale, là dove quel che resta del sovranismo euroscettico (Orbán) deve servire a conservare il consenso anche in altre fasce sociali e sul territorio nazionale.Come la prima, pure queste due ultime ambiguità sono state, se non proprio rese indispensabili, quanto meno sollecitate dalle circostanze: l’ingovernabile caos politico dell’attuale legislatura prima, l’emergenza pandemica poi. In questi ultimi anni del resto, e non per caso, incongruenze di ogni genere e cambi repentini di direzione politica non hanno di certo caratterizzato soltanto la Lega. Non solo: è possibile ipotizzare che quelle ambiguità abbiano tutto sommato evitato al Paese tensioni e strappi politici ancora più perniciosi.L’«insurrezione populista» che ha preso avvio con le elezioni del 2013 ed è stata poi confermata e anzi amplificata in quelle del 2018 è scaturita da un autentico, profondo scollamento fra le forze politiche tradizionali e l’Unione europea da un lato e una parte molto consistente dell’elettorato italiano dall’altro. Una frattura che non sono riusciti a chiudere né i partiti cosiddetti populisti, che identificavano ed esprimevano disagi reali ma non sapevano dar loro risposte efficaci, né i partiti tradizionali, che posti di fronte a problemi pressoché insolubili – in particolare quelli creati dai molteplici, madornali errori commessi nella costruzione dell’Unione europea – hanno scelto di negarli o minimizzarli, delegittimando chi se ne lamentava. In queste circostanze l’ambiguità della Lega di Salvini, così come quella del Movimento 5 stelle, ha impedito, per quanto in maniera precaria, provvisoria e disfunzionale, che i lembi della lacerazione si divaricassero troppo. Con la pandemia questa vicenda è stata sospesa, ma dubito molto che si sia conclusa. Da quando è nato il governo Draghi, Salvini si è comportato in maniera più responsabile di quanto spesso non si dica, agitandosi e polemizzando poco più del minimo indispensabile a dare un segno di vita politica e affrontare la concorrenza di Giorgia Meloni. Ma non è affatto impossibile, purtroppo, che nei prossimi mesi la frattura di cui dicevo si ripresenti ancora più profonda che nel passato. A motivo delle conseguenze economiche e sociali del Covid, in primo luogo. Ma anche del doppio movimento per il quale la pandemia sta per un verso mettendo in luce crescente la fragilità patologica e apparentemente inemendabile della costruzione europea, per un altro rendendo l’Italia più che mai dipendente dall’Unione. Se così sarà, se la lacerazione dovesse aggravarsi, dovremo allora augurarci che l’ambiguità di Salvini continui a svolgere efficacemente la propria funzione. —