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 2021  aprile 10 Sabato calendario

Julio Cortázar, un argintino nato in Belgio che alla fine era francese

1980. Dopo Borges… be’, parecchio dopo Borges, Julio Cortázar era all’epoca il massimo scrittore argentino. Come Borges, anche se non quanto Borges, aveva un’attenzione estrema per le parole: erano la sua cassetta degli attrezzi, in parte lanterna magica, in parte organetto di Barberia. Aveva scritto libri importanti, Il gioco del mondo, i racconti di Bestiario, e qualcuno lo paragonava addirittura a Edgar Allan Poe. A differenza di Borges, però, il quale era un vecchio anarchico di destra che disprezzava la politica, specialmente la politica populista e guerrigliera, Cortázar aveva fatto le giuste scelte, in favore di Cuba (anzi, «dell’America latina») e s’era messo «al servizio del socialismo».Nato in Belgio da genitori argentini, visse quasi sempre in Francia, lontano dai peronisti e dai generali, dalle camere di tortura e dagli squadroni della morte, dalle guerre per le Falkland, dal culto necrofilo per Evita Perón e delle sue ricadute politiche: la destra peronista e i Montoneros, con le loro macabre fantasie riguardo alla «patria socialista». Di tutti questi fantasmi argentini, che sferragliavano le loro catene anche nelle sue opere letterarie, più che un testimone, Cortázar era uno spettatore. Era per nascita un espatriato, e certo più un francese che un argentino. In omaggio, però, allo spirito del tempo finì per darsi dell’esiliato, come Zola in fuga dagli antidreyfusardi, o come Thomas Mann e Bertolt Brecht a Hollywood. Aggiunse, anzi, che per uno scrittore argentino non c’era che l’esilio in Europa per dire la verità, senza tanti esopismi, sul fascismo, sui golpisti, sul terrore e sulla junta militar.
Aveva, diciamolo, perfettamente ragione. Ma accampare uno status di solo oppositore del regime attendibile e senza peli sulla lingua suonò un po’ come se si fosse tinto i capelli per sembrare più giovane. Gli scrittori antifascisti rimasti in Argentina non glielo perdonarono. Era il 1980, Julio Cortázar sarebbe morto settantenne quattro anni più tardi e Liliana Hecker, vicedirettrice della rivista letteraria El Ornitorrinco che si stampava in forma semiclandestina a Buenos Aires, prese la penna e scrisse una lettera aperta (offesa e pepata) all’autore di Ottaedro e delle Armi segrete, che da tempi immemorabili era una grande firma della rivista (come pure delle due testate che l’avevano preceduta negli anni Cinquanta e Sessanta, prima El Grillo de Papel, poi El Escarabajo de Oro).
Hecker contestò a Cortázar la sua autodefinizione di «scrittore argentino in esilio» e agli scrittori argentini in esilio (qualcuno ce ne sarà pur stato) di parlare a nome dell’Argentina sotto la dittatura. Proclamò, inoltre, che gli scrittori argentini rimasti in patria non erano soltanto più coraggiosi di Cortázar (che in Argentina, oltretutto, c’era stato poche volte, e sempre di fretta) ma anche molto più attendibili perché (a dispetto del linguaggio velato a cui dovevano ricorrere per non farsi strappare le unghie o scaraventare giù da un elicottero) rischiavano egualmente la pelle e perché, soprattutto, essi erano a contatto con la realtà argentina, che Cortàzar (dal suo «esilio») invece ignorava. Ah, «no, Cortázar» – scrisse Hecker, indignata – «un Paese non è un hotel per turisti in cui restiamo quando il soggiorno ci aggrada e che abbandoniamo quando il servizio non ci soddisfa».
Un paese, in realtà, è proprio questo, a meno di non essere accecati dall’idea che la letteratura sia il nazionalismo (e la politica) in un’altra forma (ciò che spiega il novantanove per cento della letteratura sudamericana della seconda metà del Novecento ma che non spiega Borges). Forse un po’ condiscendente, ma con la sua abituale gentilezza, e con humour, Cortázar accusò ricevuta e ribadì la sua opinione in una lettera aperta di risposta: «Ti disturba che io abbia spiegato nei particolari come e perché mi considero un esiliato dall’Argentina e a quanto pare pensi che io abbia cercato di aggregarmi ora – dopo tanti anni vissuti in Europa – alla schiera di coloro che hanno dovuto abbandonare più o meno forzatamente i loro Paesi. Benché [me ne sia] andato dall’Argentina molto tempo fa perché mi andava, ti ribadisco che le circostanze attuali mi portano a sentirmi esiliato come qualsiasi altro scrittore, e che solo in questi termini mi sono ritenuto e mi ritengo in diritto di parlare ai miei co-esiliati di tutta l’America Latina per invitarli a una lotta positiva e non alla solita nostalgia piagnucolona».
Liliana Heker, che alzò i toni, ed El Ornitorrinco, che continuò a uscire semiclandestino e semitollerato negli anni della guerra sucia (la «guerra sporca» contro il terrorismo di sinistra) e fino alla caduta del regime, nel 1983, ebbero l’ultima parola: «[Nella sua risposta lei] afferma: «Dove sono, chi sono i veri esiliati? Noi, dispersi nel pianeta o un intero popolo privato dei suoi migliori artisti e scrittori?» Qui l’espressione «noi, dispersi nel pianeta» conferisce alla sua particolare situazione una teatralità che, se rapportata alla sua situazione reale, risulta alquanto comica. E ora non starò ad elencare tutti i drammaturghi, scrittori, poeti, attori, registi di teatro, pittori e musicisti [tra i quali Borges, Sábato, Bioy Casares e Mujica Lainez] che attualmente vivono in Argentina perché l’unica espressione che lei usa, «i migliori», nelle cui fila si arruola, è così megalomane che non merita d’essere confutata. Piuttosto le rammenterò che «tutto il popolo» è sempre stato privato dei suoi migliori artisti e scrittori. E non soltanto da parte della censura. Quello è uno dei motivi per cui certi scrittori, tra cui la sottoscritta, hanno deciso di rimanere: perché è questo nostro Paese quello che noi vogliamo cambiare. Questa realtà – un popolo che concretamente non ha accesso alla cultura, gente che a volte non ha da mangiare, disoccupati, desaparecidos per i quali nessuno risponde, uomini che vengono licenziati per avere aderito a uno sciopero – tutto questo, costituisce la nostra realtà nazionale. Si può, al contempo, scegliere di contrastarla e scegliere di vivere a Parigi? Forse. Ma, si deve?»
Doversi magari no, ma per potersi (nessun «forse») si può eccome. Umberto Eco, qui da noi, voleva lasciare l’Italia di Berlusconi, di cui non tollerava il conflitto d’interessi (pensa te) e il sorriso da squalo, a sessantaquattro denti. Figurarsi se al potere ci fosse stato il Dottor Mengele in salsa latino-americana come in Argentina. Personalmente, fossi solo di qualche decina d’anni più giovane, me ne andrei dall’Italia solo per non vedere più certi grugni. (Non faccio nomi, li penso soltanto: Grillo, Salvini, Conte, Zingaretti, Grillo, Pazienza, Grillo, Grillo, Grillo).