Corriere della Sera, 9 aprile 2021
In Groenlandia vincono gli Inuit (e i cinesi non potranno più sfruttare le loro riserve minerarie)
Quando Knud Rasmussen chiese a una guida Inuit in cosa credesse, si sentì rispondere «noi non crediamo, noi abbiamo paura». Ed è forse quella stessa paura atavica – principalmente, della forza della natura – che ha spinto gli abitanti della Groenlandia a dire no allo sfruttamento minerario del proprio territorio. Il partito Inuit Atagatigiit (IA), ambientalista e di sinistra, ha superato con il 36,6% delle preferenze il partito socialdemocratico di governo Siumut (fermo al 29,4%) alle elezioni anticipate che si sono svolte martedì sull’isola artica, abitata da appena 56 mila persone.
Sotto la neve che scendeva copiosa, si sono formate lunghe code fuori dai seggi per scegliere i 31 deputati del Parlamento. All’ingresso, distribuivano mascherine anti-Covid, che lassù ha contagiato appena 31 persone, senza provocare morti. La popolazione locale – per oltre il 90% Inuit – teme di più gli appetiti delle compagnie straniere, che da tempo hanno messo gli occhi sulle enormi riserve minerarie ancora inesplorate, intorno al Circolo polare.
Il leader trentaquattrenne di IA, Mute Egede, ha già annunciato che firmerà l’accordo sul clima di Parigi e che il controverso progetto minerario di Kvanefjeld, nel sud dell’isola, sarà interrotto. «La gente ha parlato», ha scritto su Facebook. «La vostra fiducia ci dà una grande responsabilità». Il suo partito tuttavia non ha i numeri per governare da solo ed è probabile l’alleanza con forze minori.
La Groenlandia fa parte del Regno di Danimarca, da cui dipende per la politica monetaria, estera e di difesa, ma ha un’ampia autonomia sui temi economici e sociali. Rientra in questo ambito il progetto del monte Kvanefjeld, dove si troverebbe la seconda più grande concentrazione al mondo di terre rare – 17 elementi utilizzati come componenti in molti oggetti hi tech, dagli smartphone alle auto elettriche, fino agli aerei da combattimento – e la quinta vena più ricca di uranio. Un tesoro che fa gola a molti. Al punto che l’ex presidente americano Donald Trump nel 2019 si offrì di acquistare l’intera isola, per sentirsi rispondere, seccamente, «assurdo». Più furbi i cinesi: da tempo investono nella società australiana Greenland Minerals, che nel 2010 ottenne una licenza di esplorazione a Kvanefjeld. Proprio questo progetto ha fatto saltare il governo locale, dopo l’uscita dalla coalizione del partito di destra Demokraatit, stanco dei rinvii di Siumut. Il nuovo governo, ambientalista e indipendentista, ora volta pagina.
La Groenlandia ha ottenuto la proprietà delle riserve minerarie assieme all’autogoverno nel 2009. Lo sfruttamento dei depositi di terre rare creerebbe 700 posti di lavoro, di cui 300 per i locali. «Ma pescatori, cacciatori, allevatori e una parte crescente della popolazione temono l’inquinamento delle acque e del suolo», ha dichiarato la deputata di IA, Marianne Paviasen.
Sul risultato pesa il voto dei giovani, più sensibili all’ambiente e alla riscoperta delle radici Inuit, e molto critici rispetto all’eredità coloniale. L’indipendenza, però, potrà essere raggiunta solo con un rafforzamento dell’economia, che ancora dipende dai generosi sussidi di Copenhagen (526 milioni di euro annui). E gli isolani devono fare i conti con il riscaldamento climatico, lassù due volte più rapido rispetto al resto del pianeta, con pesanti contraccolpi sulle tradizionali attività economiche degli Inuit, come la pesca.