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 2021  aprile 09 Venerdì calendario

Sette anni dopo il Donbass è sempre sulla linea del fronte

«È il luogo al mondo con il più alto numero di mine – dice Mikhail Minakov, filosofo politico ucraino -. Altrove hanno delle mappe, qui neanche quelle. Muoiono sulle loro stesse mine, da entrambi i lati della linea del cessate il fuoco. Le intese firmate l’estate scorsa prevedono programmi di sminamento, ma per poterli attuare la tregua deve essere reale: e qui non è così».
Nelle regioni ucraine di Luhansk e Donetsk, attorno al confine che dal 2014 le spacca in due, non si è mai smesso di sparare del tutto. Da alcuni mesi poi, un conflitto semi-congelato e scordato dal mondo si è pian piano risvegliato, e il conteggio quotidiano dei morti ha ripreso a salire. Non più soltanto a causa delle mine.
Una delle ultime vittime è un bimbo di 5 anni, ucciso il 5 aprile scorso a Oleksandrivske, all’interno dell’autoproclamata Repubblica popolare di Donetsk, controllata da separatisti filo-russi. Episodio che gli osservatori internazionali dell’Osce non commentano, non potendolo verificare: Mosca invece ha aperto un’inchiesta, accusando le forze ucraine per un attacco con droni e armi pesanti, in violazione del cessate il fuoco. Falsità e manipolazioni ciniche, rispondono gli ucraini, che sospettano sia stata proprio una mina a uccidere il bambino. Da una parte e dall’altra, i due fronti si attribuiscono a vicenda le provocazioni che hanno alimentato l’escalation.
I negoziati perduti
Il processo di pace per il Donbass, che con la partecipazione di Vladimir Putin e Volodymyr Zelenskiy aveva iniziato a dare qualche risultato – cessate il fuoco, scambi di prigionieri, disarmo – si è completamente smarrito. I passi che restavano da compiere in base ai cosiddetti Accordi di Minsk del febbraio 2015 sono i più complessi: una sistemazione politica della regione attraverso lo svolgimento di elezioni locali, e il ripristino del controllo ucraino ai confini esterni. Quelli in cui ora, dall’altra parte, preme lo schieramento militare russo.
«Purtroppo la finestra di possibilità si sta richiudendo», avvertiva già un anno fa Andrej Kortunov, direttore generale del Consiglio russo per gli Affari esteri, spiegando che «difficilmente Putin avrebbe potuto trovare un interlocutore più disponibile di Zelenskiy».
Ma ora che nessuno accenna più a riunire il Quartetto di Normandia composto da Angela Merkel ed Emmanuel Macron accanto a Putin e Zelenskiy, complice la pandemia che ha intrappolato il mondo, lo stesso Kortunov intervistato dal sito russo Meduza spiega che l’escalation a cui assistiamo in Donbass «è il risultato di una serie di tendenze sfavorevoli su entrambe le parti, una combinazione che crea ulteriori rischi e minacce, che prima non c’erano». La crisi ucraina può riesplodere in un momento in cui le relazioni tra Mosca e l’Occidente lasciano pochissimi appigli per evitare il peggio.
Le mosse di Zelenskiy
Il presidente ucraino, trionfalmente eletto nel 2019, è una delle maggiori vittime politiche della crisi provocata dalla pandemia: se la sua agenda si presentava comunque in salita fin dall’inizio, il virus ha completamente scompigliato le carte all’ex attore determinato a ricomporre il conflitto nell’est del Paese. Missione complessa, poiché chiede di conciliare la posizione e le richieste di Mosca con quelle dei nazionalisti ucraini. Missione praticamente impossibile per un presidente indebolito dalla crisi economica, sociale e sanitaria legata al Covid, sovrapposta alla necessità di combattere la corruzione e imporre le riforme chieste dai creditori internazionali.
L’intransigenza dei russi non ha aiutato il presidente ucraino. In crisi di popolarità, e già con gli occhi sull’obiettivo rielezione, Zelenskiy ha giocato la carta del nazionalismo, indurendo i toni con Mosca per apparire ai connazionali come un leader forte e determinato a contrastare l’aggressore. All’inizio di febbraio, in rapida successione, Zelenskiy ha messo al bando tre canali televisivi filorussi, accusandoli di essere finanziati da Mosca e di finanziare i separatisti. Poi ha imposto sanzioni contro una serie di personaggi tra cui Viktor Medvedchuk, leader del più influente partito filorusso in Ucraina e cinghia di trasmissione tra Kiev e Mosca.
Vaccini e nazionalismo
Nel giro di vite è finito naturalmente anche il vaccino Sputnik, che Medvedchuk avrebbe voluto acquistare per l’Ucraina: a conferma della propensione del farmaco, spiega Yaryna Grusha Possamai, pubblicista ucraina, a essere usato «come strumento strategico per la promozione delle agende politiche di singoli Paesi sulla scena mondiale». «L’Ucraina difende la libertà di parola – ha dichiarato Zelenskiy -, ma non la propaganda finanziata dagli aggressori». E «non appena i media sotto sanzioni hanno perduto il segnale – racconta Grusha Possamai – la narrativa di Sputnik V come migliore alternativa ad altri vaccini anti-Covid, accusati di provocare duraturi effetti collaterali, è scomparsa dalla mediasfera ucraina».
Messaggio a Washington
Dietro il cambio di tono di Zelenskiy, concordano diversi osservatori, Mosca vede gli Stati Uniti della nuova amministrazione Biden: la convinzione del presidente ucraino di avere ora a Washington orecchie più attente, disposte a intervenire in caso di bisogno. Tanto più che la crisi con l’Occidente avviata proprio in Crimea e nel Donbass ha continuato ad aggravarsi, e ora chi pronuncia il nome di Aleksej Navalny o condanna il trattamento dell’opposizione russa sbatte contro un muro, come se non ci fosse più alcuna possibilità di trovare un punto di incontro. L’appello di Zelenskiy alla Nato – l’eventualità di un’Alleanza Atlantica estesa all’ex repubblica sorella, fattore scatenante della crisi del 2014 – è come la chiusura di un cerchio.
«Agli occhi di Mosca – scrive Maxim Samorukov del Carnegie Moscow Center – la retorica occidentale su democrazie e diritti umani non è altro che uno strumento di rivalità geopolitica». La risposta, questa mobilitazione di uomini e truppe alle porte del Donbass che mette in allarme le cancellerie, è dunque un avvertimento rivolto agli Usa, più che a Kiev o a un’Europa sempre meno presente. Nei giorni scorsi i capi di stato maggiore di Russia e Stati Uniti, generali Valery Gerasimov e Mark Milley, hanno affrontato la crisi in un colloquio. In uno scenario meno deteriorato, vi si potrebbero leggere elementi positivi: l’assenza di un coinvolgimento americano è uno dei motivi che in questi sette anni, dal 2014 a oggi, hanno impedito una composizione duratura del conflitto nel Donbass.