Corriere della Sera, 8 aprile 2021
Minoli vuole entrare del Cda della Rai
Giovanni Minoli, autore e conduttore di programmi e fiction, ormai storia della tv, direttore di reti e canali in Rai e non solo, a 75 anni si candida a entrare nel cda dell’emittente pubblica, prossimo alla scadenza. «Se questo è il governo delle professionalità, mi sono allenato abbastanza e ho il curriculum per propormi», dice.
Il servizio pubblico ha ancora senso?
«In mezza Europa è un modo di manifestarsi della democrazia. Dato lo stravolgimento competitivo però, occorre riformularne la missione, mettendo al centro il prodotto e poi costruendo intorno un modello organizzativo. C’è bisogno di una Raifondazione».
Ha già lo slogan.
«Se siamo al punto in cui siamo per cui con 14 mila dipendenti, l’80% del prodotto è in outsourcing, o non ha senso rivolgersi fuori o non lo hanno i 14 mila dipendenti».
La Rai è un “carrozzone”?
«È un po’ il “welfare alla romana”. Sono stati fatti fuori gli uomini di prodotto e sono rimasti i burocrati».
La legge Renzi è buona per governare la Rai?
«Sì, perché ha dato all’amministratore delegato il potere di decidere. Dopodiché se qualcuno aspetta i partiti per farlo, è un problema suo».
Si riferisce all’attuale ad Fabrizio Salini?
«Niente di personale: era il direttore generale quando ero a La7. Ma per farle un esempio, è possibile che io abbia un contratto che mi ha conferito per dieci anni i diritti sull’archivio del mio programma “La Storia siamo noi”, e tutti me li richiedono tranne la Rai? Sono pezzi di memoria storica del Paese, utilizzabili all’infinito».
Li regali...
«Regalarlo forse no, ma potrei trattarlo con molta moderazione rispetto al valore di mercato».
Manterrebbe l’attuale struttura della Rai in reti?
«No, nell’era multimediale e multipiattaforma la struttura dovrebbe essere orizzontale per mirare ai vari tipi di pubblico. E poi ormai le reti si chiamano con un nome che individua il prodotto, tipo Discovery, non con i numeri».
E le news?
«Il Tg è una formula superata. Siamo bombardati dalle informazioni. E poi tutto è informazione e educational: la tv trasmette valori, e riesce a farlo meglio un”Don Matteo” di tanti programmi con intento educativo. Mi diceva Dan Rather, anchorman della Cbs, che la tv è molto più potente della bomba atomica perché gli effetti si vedono nel tempo. Mi chiedo perché la Rai non partecipi alle società che producono queste fiction. Il prodotto viene prima di tutto, il resto è solo supporto».
Sono pochi tre anni di mandato per l’ad?
«Non si può fare molto. Poi dipende da chi scegli. Sono state nominate persone che si vantavano di non vedere la tv».
Teme lo share?
«Nel resto dell’Europa le reti pubbliche non fanno più del 30% perché si danno una mission. Io avevo proposto di mettere un pallino verde sui programmi pagati dal canone perché questo costringerebbe la dirigenza a elaborare un’idea di servizio pubblico».
Il tetto agli stipendi in Rai ha un senso?
«Non molto. È selettivo ma non è attrattivo».
Manager bravi scappano.
«Penso a Andreatta che è stata bravissima con le fiction. Oggi l’evoluzione del genere imporrebbe la fusione tra cinema e fiction».
Il canone in bolletta?
«Serve per fornire un servizio pubblico, non per comprare format di giochi all’estero. Che poi, se uno andasse negli archivi della Rai, troverebbe i progenitori di tutti i programmi che circolano. Basterebbe rigenerarli, come ha fatto Marchionne con la 500».
Mi dice un programma che avrebbe voluto ideare?
«No. Non vorrà mica che scopra le mie carte adesso?».