Corriere della Sera, 7 aprile 2021
Intervista a Mario Martone
Quando quella sera prese il treno, a tarda ora, per tornare da Roma a Napoli, si addormentò. «E mi svegliai in Calabria», racconta Mario Martone che ha firmato la sua prima regia a 17 anni.
«Frequentavo il Liceo classico Umberto I nella città dove sono nato, Napoli, ma già bazzicavo i luoghi della creatività che, a quel tempo, erano molto vivi: una autentica fabbrica d’arte agguerrita, tra musica, cineteche, cineclub... In particolare “Spazio libero”, un luogo di avanguardia totale, dove assistevamo a performance, istallazioni, al confine tra arte e fantasia, e che aveva molto in comune con il romano “Beat 72”. Per questo, con Toni Servillo e altri amici, andavamo spesso nella Capitale. Prendevamo il treno nel pomeriggio, dopo la scuola, un convoglio ferroviario molto lento ma, quando finalmente arrivavamo, trascorrevamo tutta la sera in giro per andare a vedere gli spettacoli di Leo De Berardinis, Memè Perlini, Simone Carella... Erano anni folli, di grande passione ed entusiasmo, eravamo spugne che assorbivano un mondo creativo, scatenato. Poi, però, dovevamo tornare a casa, per essere a scuola la mattina seguente, quindi riprendevamo il treno di notte e poteva capitare che, data l’ora tarda, la lentezza del treno e la stanchezza...».
Siamo nel pieno degli anni Settanta...
«Sì, ai quali si pensa sempre come anni plumbei, solo come gli anni di piombo, ma non erano solo questo... erano anni di impegno politico, culturale, anni di protesta e di partecipazione».
Arrivando a scuola la mattina, dopo nottate impegnative, come procedeva il rendimento scolastico?
«Quell’anno venni rimandato in greco... e pensare poi quante tragedie greche ho messo in scena. Ma a proposito di tragedie, e riguardo all’attuale pandemia, ho un altro ricordo che risale al 1973, quando a Napoli scoppiò il colera. Un momento drammatico, davvero particolare. Era settembre, avevo appena finito la terza media e stavo per approdare al quarto ginnasio. Guardavo fuori dalla finestra ed ero confuso, in uno stato di depressione, vedevo una città che non era più la stessa. Poi per fortuna il colera finì e al liceo entrai in una vita adulta: per carità, rigorosamente divisi tra maschi e femmine, niente classi miste, però c’erano le contestazioni, le assemblee avvolte nel fumo delle sigarette...».
E delle nottate trascorse in giro, i suoi genitori erano contenti?
«Ho avuto genitori che si fidavano di me. Oggi gli adulti non si rendono conto di mostrarsi con uno sguardo spaventato, con cui trasmettono ansia ai giovani, un atteggiamento che non produce nulla di buono, perché non li responsabilizza. Mia madre e anche mia nonna erano amanti del cinema, del teatro, della letteratura... Mio padre faceva il pellicciaio, un lavoro che oggi si definirebbe politicamente scorretto, ma grazie a lui, che era un fotografo appassionato, ho scoperto la camera oscura, lo sviluppare e creare immagini, insomma i primi rudimenti di quello che in seguito sarebbe stato il mio lavoro nel cinema».
Lei non ha frequentato scuole di cinema e di teatro, ma ne ha fatto la sua professione.
«È vero, sono partito dalla militanza teatrale, cioè esserci dentro da subito. Non ho avuto maestri veri e propri, direi dei fratelli maestri, con cui abbiamo mosso insieme i primi passi. Ai miei primi spettacoli, in realtà delle performance, in sala c’erano quattro gatti, ma via via il pubblico è cresciuto fino all’esplosione che ebbe “Tango glaciale” in una città che è, per definizione, teatrale, in tutti i suoi aspetti, anche in quelli in cui si lascia andare: la fatica di vivere a Napoli è un modo di vivere. Napoli è una città che può essere feroce, ma è anche rappresentata da Pulcinella, la maschera con una doppia natura: dietro lo sberleffo, nasconde una realtà dolente e, al tempo stesso, esprime vitalità in continuo mutamento».
Nel 1979 crea il gruppo «Falso movimento»: perché lo chiamò in questo modo?
«Un omaggio al film di Wim Wenders, un preciso punto di riferimento per tutti noi che facevamo spettacoli di post avanguardia, processi di disallineamento, contro le convenzioni, gli schematismi... e poi, con Antonio Neiwiller e Servillo, nascerà “Teatri Uniti”».
Dalla militanza teatrale alla direzione di un teatro stabile, quello di Roma, il passo non è stato breve...
«E infatti quando l’allora assessore alla Cultura capitolino, il compianto Gianni Borgna, me lo propose, cascai dal pero. Avevo appena girato il film Teatro di guerra dove raccontavo il conflitto tra un gruppo di artisti e un fantomatico teatro stabile. Tutto potevo immaginare tranne che sarei diventato il direttore di un teatro pubblico, per di più a Roma! L’ho presa come una sfida, una battaglia personale».
Perché?
«Sono stato alla direzione solo due anni, ma vissuti pericolosamente, per cambiare tante cose incartapecorite. Innanzitutto, volevo dare al Teatro Argentina l’aggiunta di un secondo palcoscenico, dove dare spazio alle novità, alla sperimentazione di nuovi linguaggi, a registi e autori contemporanei, una mescolanza attiva di generi diversi, una dimensione assembleare, in cui gli spettatori dovevano avere una parte attiva. Insomma un teatro inteso non più come un club per pochi appassionati».
E nacque l’India.
«Fu proprio Borgna che mi parlò di un’ex fabbrica della Mira Lanza distrutta, in disuso, in una zona periferica della città. Andammo insieme, in grande segretezza, e trovammo una situazione selvaggia: accampamenti di zingari, vegetazione incolta, cani randagi... una vera e propria giungla, dove si poteva accedere solo con il machete. Ma l’edificio era ancora in piedi e aveva caratteristiche interessanti, adatte a diventare spazio scenico. Ripartì la mia militanza e, come una furia, cominciai subito a lavorare per trasformarlo in quello che poi è diventato. Lo chiamai India innanzitutto perché ero reduce da due viaggi importanti in quel Paese, nobile e al tempo stesso povero. Poi c’era già l’Argentina... Certo, si chiama così perché si trova in un’area archeologica anticamente nota col nome di Argentoratum, non per il Paese del sud America, però nella mia fantasia era come se il nome venisse da lì e mi piaceva giocare con i due Paesi: era un invito al viaggio della libera immaginazione».
Da Napoli a Roma. Poi schizza allo Stabile di Torino: un passo ancora più lungo.
«Dopo l’esperienza romana avevo, per così dire, appeso al chiodo le scarpette da direttore artistico. Ma stavo già lavorando al film sul Risorgimento, Noi credevamo, che riguardava molto da vicino il Piemonte e allora, quando mi proposero questo nuovo impegno, mi resi conto che si trattava quasi di un destino, non potevo rispondere no. Certo, Napoli è l’opposto di Torino, ma io mi trovo bene negli opposti, la diversità in quello che faccio mi spinge ad andare avanti, a guardare oltre, non ho problemi con chi è diverso da me. Ho convissuto bene, per dieci anni, con i torinesi: un pubblico severo, come lo è quello napoletano».
Stranamente l’autore che ha meno frequentato è proprio un napoletano, il grande Eduardo De Filippo. Perché?
«Eduardo non è stato solo autore, ma grande attore, e affrontare il suo teatro è complicato, in quanto occorre confrontarsi con un macrotesto: c’è il testo e la sua interpretazione che tutti conosciamo e di cui ci ricordiamo bene, essendo stato portato anche al vasto pubblico televisivo. L’unica sua opera che ho rappresentato, sia in palcoscenico sia sul grande schermo, è il Sindaco del rione Sanità: l’idea è stata quella di prendere il personaggio protagonista, don Antonio Barracano, e trasporlo in un boss di oggi, giovane, interpretato da Francesco Di Leva. Insomma, ho sottratto il personaggio all’attore-autore Eduardo, suonando un’altra partitura. Ma il mio ultimo film, Qui rido io, che purtroppo ancora non è uscito nelle sale per la chiusura imposta dal Covid, affronta un altro tema caro a De Filippo: la paternità, ovvero Eduardo Scarpetta».
Fra teatro di prosa, lirica e cinema, lei ha fama di regista intellettuale: si riconosce in questa veste?
«No, e non perché abbia niente contro chi è intellettuale per davvero, ma perché quel che faccio da artista è pormi delle domande e non suggerire risposte. Domande che cerco di condividere con gli spettatori, affinché si mettano in viaggio con me. È un cammino di conoscenza: sia nel passato, sia nel presente, sia nell’indagare gli esseri umani».
È mai stato in analisi?
«Sì, per due anni, molto importanti anche sul piano terapeutico».
Con la sua aria timida, da studente giudizioso, occhialini tondi, modi gentili... le è mai capitato di offendere ferocemente qualcuno, da napoletano verace?
«Posso fare delle sfuriate: a volte sul set la temperatura sale vertiginosamente perché, a differenza del teatro, i tempi di riprese sono strettissimi, incalzanti, compressi... Cerco tuttavia di rispettare chi lavora con me. Offese? Spero proprio di no!».
Il suo prossimo impegno imminente è l’opera lirica: «La Traviata», su Rai3 il 9 aprile. Le spiace non poterla rappresentare in un teatro?
«Sì, ma questa trasposizione per me è un’avventura straordinaria, com’è stata Il barbiere di Siviglia. Un modo di reagire creativamente alla realtà drammatica che viviamo. Figaro, Violetta, in questi lavori sono personaggi in cerca di pubblico e spero che gli spettatori, anche se chiusi in casa, riescano a sentirli vibrare».