Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2021  aprile 07 Mercoledì calendario

Intervista a Giovanni Veronesi


Un film da regista per cancellare Hitler dalla storia, uno da produttore e sceneggiatore per sostenere il talento giovane di Pilar Fogliati, l’attrice diventata popolare con un video social in cui improvvisava tipologie di ragazze romane.
Giovanni Veronesi, 58 anni ( Manuale d’amore, Non è un paese per giovani, Moschettieri del re), ha stretto un accordo biennale con Indiana Production.
Come nasce il sodalizio con Pilar?
«La tenevo d’occhio da tempo, ho capito che era in grado di dirigere un film. Stiamo scrivendo insieme la storia di quattro trentenni che non sanno cosa faranno nella vita ma iniziano ad avere piccoli cedimenti.
L’aristocratica che vive nel centro storico, la ragazza di Ponte Milvio, aggressiva e inserita nella società, la siciliana arrivata per fare l’artista, la commessa di Guidonia, la più pura di tutte».
E l’idea di “La storia siamo noi”?
«Volevo affrontare la Shoah ma non in modo diretto. Un killer e uno scienziato vogliono tornare con la macchina del tempo al giorno in cui Hitler fu più vulnerabile, quel mercoledì di maggio del ’38 in cui cavalcò con Mussolini fuori Roma, senza scorta. Ma sbagliano giorno e giungono nel 1889, quando Adolf è un neonato: difficile eliminarlo. Sono stato ad Auschwitz due volte, a meditare. Non posso fare a meno di chiedermi che società avremmo avuto senza l’Olocausto».
Il cinema che cambia la storia è un filone rinverdito.
«Gli uomini hanno sempre voluto cambiare con la forza la storia, il cinema è nato quasi esclusivamente per questo. Ritorno al futuro raccontava una vicenda individuale, io abbraccio la storia nel suo insieme.
Lo ha fatto Tarantino, anche un film come Sono tornato. Amo esplorare il tempo, viaggiare con la fantasia come ho fatto con i moschettieri, stavolta scandagliando un periodo delicato. Sono in contatto con la comunità ebraica, sto cercando tono e centro della storia».
Perché questa fuga dalla realtà?
«Ho capito che questa è la mia cifra al cinema: la fantasia, la fiaba. La quotidianità la so affrontare solo con una componente fantastica».
Farà un terzo “Moschettieri”?
«Spero di sì, ho trovato un libro del 1910 di un umorista francese che sembra fatto apposta. I tre moschettieri rimasti vanno a cercare il figlio di Aramis, che si è messo nei guai. È una goduria governare un set con quella creatività, entrare nel 1600 e restarci per tre mesi, tirar di spada e andare a cavallo, un caos creativo e organizzato».
Il film non ha avuto candidature ai David di Donatello.
«Come ho detto alla presidente Piera Detassis, c’è una concentrazione di candidature sugli stessi film. So che non ci sono inghippi ma bisognerebbe fare una riforma e affidare la prima scrematura alle singole categorie. Se prima votassero i tecnici, avremmo meno omologazione».
Suo fratello Sandro le ha dedicato il romanzo “Il colibrì”.
«Ho iniziato io con il primo film sui moschettieri. È stato bello e importante. Non siamo ragazzini, abbiamo vissuto e sappiamo che significato ha una dedica, dove porta e da dove proviene. Significa guardarci in faccia, pensare alla vita vissuta insieme, alla nostra famiglia che non c’è più, l’infanzia, la casa al mare, il posto dell’anima dove Sandro ha ambientato i suoi libri. Il nostro è un legame indissolubile a prescindere, ma una dedica è come quando regali un mazzo di rose alla tua compagna e non è il suo compleanno».
Non lavorate insieme.
«Grazie a dio. I nostri non erano genitori artisti ma borghesi illuminati. Ci hanno avvicinato al mondo dell’arte: una delle prime cose che si dovrebbe fare a scuola.
Sandro e io eravamo carichi fin da giovani. Il suo primo romanzo l’ha scritto a 16 anni, il primo film l’ho girato a 23. Da metà anni 80 a oggi è stata una bella cavalcata, non facile».
Se con la macchina del tempo potesse cambiare il passato?
«Modificherei solo una cosa, fondamentale: stare dietro a mia madre quando diceva di non avere nulla, invece era malata di tumore.
Pensavamo che fosse mio padre a dover morire, aveva un tumore da anni. Lei si è trascurata, ha messo la freccia a destra ed è morta per prima. Se tornassi indietro cercherei di vivere quel momento in un altro modo, stando attento a quegli indizi che mia madre cercava di nascondere. Per il resto mi prendo tutto».
Sui social commenta spesso il presente. Che momento è questo?
«Brutto, perché abbiamo capito di non aver saputo gestire bene le cose.
Oggi ci sarebbe la possibilità di vaccinarsi e non morire, eppure ancora muoiono 400-500 persone al giorno. L’anno scorso nessuno sapeva cosa fare, le morti di questi mesi, persone che potevano essere salvate, resteranno sulla coscienza collettiva».