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 2021  aprile 07 Mercoledì calendario

La partita della ricostruzione della Libia

Senza la pace in Libia, come in qualsiasi altro Paese, si fa davvero poco, o nulla. Ecco perché Mario Draghi, ieri a Tripoli per la sua prima visita all’estero in veste di primo ministro, ha posto l’accento sull’ultimo accordo di cessate il fuoco raggiunto in Libia. Auspicando che «continui e venga strettamente osservato».
A differenza delle altre intese che l’hanno preceduta negli anni passati, la tregua firmata lo scorso autunno sembra tenere. Tuttavia, se senza pace non si fa nulla, senza le armi non si prosegue la guerra. Comunque non si rendono credibili le minacce di poterla fare. E questo è un punto dolente. La Conferenza di Berlino sulla Libia, del gennaio 2020, aveva fatto dell’embargo internazionale sull’import libico di armi la «priorità delle priorità». Tutti, proprio tutti, si erano impegnati a rispettarlo. Quasi nessuno degli attori coinvolti, a vario titolo, nel conflitto lo ha poi rispettato.
Oggi in Libia si spara di meno. Ma le armi continuano ad arrivare. Riferendosi alla missione aeronavale europea Irini, deputata a vigilare sul rispetto dell’embargo, e rinnovata fino al 2023, pochi giorni fa il team di specialisti dell’Onu incaricato di valutarla è stato particolarmente severo nel suo giudizio: «Totalmente inefficace» l’ha definita. Quanto alle armi, che già ci sono, e sono tantissime, il problema non è da meno. In Libia il disarmo non è mai avvenuto. Le milizie sono ancora armate. Le alleanze con i gruppi armati si comprano con il denaro. Inoltre vi sono circa 20mila mercenari stranieri sui due fronti rivali. Cambiare questa sorta di status quo richiederà tempo.
Il nuovo governo di unità nazionale guidato dal premier-businessman Abdul Hamid Mohammed Dbeibah ha certamente riportato una speranza che non si vedeva da anni. Tutti si augurano che la Libia riesca davvero ad avviare quel processo di transizione tante volte rimandato. Che prevede la riunificazione delle istituzioni, tra cui le due amministrazioni rivali di Bengasi e Tripoli, le due Banche centrali, le forze armate. Che porti finalmente a un referendum costituzionale, fino alle elezioni politiche e presidenziali previste il prossimo dicembre. 
Ammesso e non concesso che il neo-premier libico ci riesca (i tempi sono molto stretti), la “nuova Libia” ha bisogno di essere ricostruita. Un business molto remunerativo, da non perdere. 
Quali Paesi stranieri se ne avvantaggeranno? L’Italia è sempre stata il partner politico, commerciale e culturale storico e strategico per la Libia. Ma, ad eccezione della leadership dell’Eni nel settore energetico, le cose negli ultimi dieci anni sono radicalmente cambiate.
A ben guardare, la visita di Draghi, oltre ad affrontare argomenti strategici per l’Italia come quello della migrazione, sembra aver per prima cosa puntato a salvaguardare i contratti e le commesse già in essere che spettavano alle aziende italiane. Inclusa la spinosa questione del recupero dei crediti, storici e recenti. 
La ricostruzione, quella vera, è un’altra storia. E in questo caso le ambizioni italiane di essere in prima linea rischiano di essere ridimensionate. L’Italia cercherà di concentrarsi sui suoi punti di forza: sul settore energetico, soprattutto il metano (l’Eni con il suo gas illumina già diverse città della Tripolitania inclusa Tripoli), sulla rete elettrica, sui progetti di energie verdi e sul settore sanitario. 
Ma non si può illudere di fare la parte del leone nella ricostruzione. Perché saranno probabilmente le imprese turche a fare incetta di molti contratti in Tripolitania, non solo nel settore residenziale, dove non hanno quasi concorrenza, ma anche in altri settori strategici. E quelle egiziane in Cirenaica. Non è un caso se l’annuncio della più grande fabbrica di cemento, che verrà costruita a Misurata con un investimento di 50 milioni di dollari, e impiegherà a regime mille operai, è arrivato da un’azienda turca. 
In prima fila ci sarà anche l’Egitto del generale Abdel Fattah al-Sisi. Il 13 marzo l’ambasciata libica del Cairo ha annunciato di aver raggiunto un accordo con le autorità egiziane per facilitare l’entrata dei lavoratori egiziani in Libia. La Libia avrà bisogno di 450 miliardi di dollari per la sua ricostruzione in un arco di tempo di cinque anni. E di una forza lavoro straniera di tre milioni di persone, ha dichiarato, forse calcando un poco la mano, Abdelmajid Kosher, presidente dell’Unione libica dei contractors. Aggiungendo che le imprese egiziane faranno la parte del leone (fonti egiziane parlano di due milioni di lavoratori). 
I cinesi, con le loro offerte non sostenibili per le imprese europee, e con le banche statali cariche di liquidità per sostenerle, non staranno certo a guardare. Proprio in questi giorni una delegazione economica e commerciale cinese di alto livello sta affrontando il tema della ricostruzione con il Governo libico, con enti pubblici e privati. Batterli nelle infrastrutture non sarà facile.