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 2021  aprile 06 Martedì calendario

In difesa di Philip Roth

Non scorderò mai il giorno in cui lessi Il giudaismo nella musica di Richard Wagner. Che uno dei massimi geni musicali di ogni tempo avesse potuto concepire un libro che esponeva in modo criminale i medesimi pregiudizi antiebraici che non molti anni dopo avrebbero indotto un branco di suoi psicopatici connazionali a concepire la cosiddetta «soluzione finale», attentava al mio idealismo giovanile in modo così prepotente da mettere in crisi il mio amore per l’opera.
Come non pensare a colei che oltre ad avermi fatto ascoltare per la prima volta l’ouverture del Tannhäuser mi aveva insegnato a esecrare ogni forma di razzismo? La melomane che aveva evitato per il rotto della cuffia di essere acciuffata dai nazisti: mia nonna.
Eminenti geni antisemiti
L’ultimo anno di università, preparando la tesi su Proust e l’ebraismo, m’imbattei in un numero così sconcertante di eminenti geni antisemiti da coprire l’intera storia letteraria: Voltaire, Dostoevskij, i Goncourt, T. S. Eliot. Sentite questa, è di Baudelaire: «Bella cospirazione da organizzare per lo sterminio della razza ebraica».
Insomma, eccomi impelagato in un bel caso di coscienza. Per uscirne, decisi che occorreva separare l’ambito artistico da quello morale. Una scorciatoia maldestra che presentava parecchi problemi supplementari. Se la moralità di un individuo si esprime nella ricerca di verità, come tenere l’artista lontano dall’oggetto della sua indagine? Ci pensò il buonsenso a offrirmi una prospettiva nuova, per certi versi rassicurante. Bisognava storicizzare. Niente come il relativismo culturale poteva aiutarmi a uscire dalle sabbie mobili in cui mi ero impantanato. Giudicare un individuo vissuto secoli prima secondo l’umanismo democratico della mia epoca era un anacronismo strabico e deleterio.
Chissà, forse sarebbe arrivato un giorno in cui qualcuno avrebbe giudicato con analoga inflessibilità alcune nostre abitudini consolidate: tipo nutrirsi di carne animale infliggendo a bovini, suini e pollame sofferenze inenarrabili.

Arte e moralità
Ben presto, però, ho dovuto abbandonare anche questa prospettiva. A disturbarmi era l’idea stessa di giudizio. Che diritto avevo di ergermi a censore, rappresentante di un comitato di salute pubblica chiamato ad assolvere i probi e a condannare gli empi? Forse niente era più sbagliato di un approccio legalitario. Che senso aveva sottoporre l’arte alla gogna incoraggiata dal puritanesimo liberal? E allora? Una grossa mano giunse dagli studi proustiani. Tanto per dire, nessuno potrà negare che Proust fosse, in senso letterale, un razzista. Certo, non lo era nella maniera omicida di un Goebbels. Il suo razzismo era al servizio delle Grandi Leggi che si era messo in testa di postulare. Comunque, era convinto che Charles Swann e Basin de Guermantes – un dandy ebreo e un aristocratico di antica nobiltà merovingia – appartenessero a razze umane inconciliabili tra loro. Ecco, questo, ben lungi dall’indignarmi, mi mostrava come l’arte perseguisse scopi antitetici, per certi versi superiori, a quelli imposti dal senso comune. A ben vedere, quindi, niente è più morale della letteratura, proprio nella sua smania di scarnificare, mettere in crisi, andare al mefitico nocciolo della questione. Non a caso, la cosiddetta moralistica classica – formata da scrittori del calibro di La Rochefoucauld, La Bruyère, Madame de La Fayette – se ne infischiava di offrire ai lettori melensi esempi di virtù. Lo scopo che i moralisti classici si prefiggevano era meno edificante e parecchio più truce: dare conto delle storture umane, denunciare le ipocrisie in cui indulgono i censori e le anime belle di ogni tempo. Non a caso, tutta la migliore narrativa del Diciannovesimo secolo si è nutrita di moralistica classica: i romanzi di Balzac, Stendhal, Flaubert o Maupassant sono affollati di personaggi biechi, e zeppi di considerazioni sconsolate e dissacranti. Ecco, forse avevo trovato una chiave e una bussola. D’un tratto mi sembrava di capire l’intransigenza con cui certa critica formalista aveva scelto di valutare solo e soltanto il testo. Ora capivo perché Roland Barthes avesse sentito l’esigenza di proclamare la morte dell’Autore: ucciderlo significava difenderlo dal pettegolezzo dei filistei, e al contempo restituire allo stile la sua intrinseca moralità. La letteratura è morale proprio perché mette in scacco perbenismi e retorica. La moralità di un’opera d’arte, e quindi dell’artista che la concepisce, deriva dalla capacità di mettere in scena nel modo più schietto le miserie umane, senza eufemismi e infingimenti. Con il senno di poi si può dire che, sebbene sulla carta le intenzioni di Céline fossero meno virtuose di quelle di Zola, c’è più moralità nel più atroce sfogo di Ferdinand Bardamu che nell’intero J’accuse.

Il caso Roth
Ora è il turno di Philip Roth. A quanto pare, alle soglie dell’uscita della sua biografia, una tempesta di riprovazione minaccia la sua memoria. Non che la cosa debba per forza preoccuparci. Confido che alla lunga la sua opera densa e complessa avrà la meglio sulla damnatio memoriae che la pretestuosa suscettibilità dei nuovi maccartisti è pronta a comminargli. Di norma la faziosità dei puritani ha fiato corto e vita breve. Inoltre, mi conforta il proverbiale stoicismo rothiano. Pare che una volta, per consolare l’amico Harold Bloom dell’ennesima violenta contestazione che mise fine a una sua conferenza, Roth abbia detto: «Che vuoi farci, Harold? Siamo nati per essere insultati».
Che vi aspettate? Rosati tramonti, gesta eroiche? A parte il fatto che nel fiabesco ecosistema del suo immaginario uno scrittore ha diritto a ogni intemperanza
Insomma, il caso Roth sembra fatto in modo da inverare quanto ho appena scritto. Naturalmente mi guarderò bene dall’occuparmi della sua vita. Non nego che la biografia in uscita in queste ore in America susciti la mia curiosità morbosa. Resta comunque il fatto che non c’è ossessione venerea, adulterio, bega coniugale che abbia attraversato la vita del signor Philip Roth che possa offrirmi una nuova prospettiva sulla sua narrativa. I suoi vizi mi lasciano indifferente non meno delle prodezze militari di Archiloco, il trattamento che Virgilio era solito riservare agli schiavi o il classismo di Chateaubriand.
Del resto, basta entrare nel merito delle accuse rivolte a Roth nel corso della sua carriera – che a quanto pare neppure la morte riesce a dissipare – per capire la disonesta tendenziosità che le ispira.
1) Roth è stato accusato di antisemitismo. I ritratti caustici di maschi ebrei solipsisti, miscredenti e libidinosi hanno sdegnato le fazioni ortodosse della comunità da cui proviene. Il capo d’accusa è il solito: «Perché mettere in piazza le nostre beghe? I panni sporchi si lavano in famiglia. Questa è intelligenza con il nemico. Così facendo dai guazza agli antisemiti fornendo loro nuovi argomenti per odiarci». Che follia! Vien da chiedersi semmai se esista un altro artista che, nell’ultimo scorcio di secolo, abbia dato altrettanto lustro all’ebraismo laico e secolarizzato mostrandone complessità, ironie, sprezzature.
2) Roth è stato accusato di antiamericanismo. Per alcuni l’epica trilogia dedicata agli Stati Uniti nasconderebbe un atto d’accusa contro il cosiddetto American way of life deturpato da troppe ipocrisie puritane. Anche qui, non capisco. Semmai un appunto da muovere a Roth è l’eccesso di patriottismo, l’elegiaco sciovinismo che lo spinge a vedere nell’America il principio e la fine di ogni cosa. Del resto, è difficile per chi come me non è americano non essere contagiato dalle nostalgie rothiane per i sobborghi piccolo-borghesi del New Jersey, l’aria elettrizzante e cosmopolita che si respirava nei circoli accademici di Chicago nell’immediato dopoguerra o il senso di liberazione sessuale che invase New York all’inizio degli anni Sessanta. D’altro canto, se è vero che non c’è forma più encomiabile di nazionalismo letterario che rinnovare la madrelingua, occorre dire che pochi scrittori della sua generazione hanno dato una rinfrescata alla sintassi e al lessico inglese in modo così persuasivo e straziante.
3) Roth è stato accusato di maschilismo e misoginia. Qui, la questione è delicata. Non nego che qualcuno possa essere urtato da certi indugi morbosi, la messe di rivoltanti dettagli genitali, il torrente di fluidi fisiologici effusi dalla sua narrativa. Talvolta anche io ne sono annoiato. Ciò detto e acquisito, esecrarli mi sembra un atto talmente scriteriato da lasciarmi senza parole: sarebbe come prendersela con Dante per le pene inflitte a certi poveri dannati o con Shakespeare per aver dato mano libera a Macbeth. È letteratura, santo cielo. Che altro vi aspettate? Rosati tramonti, acque limpide, eroiche gesta? L’accusa di misoginia, se possibile, mi pare ancora più demenziale. A parte il fatto che uno scrittore – nel fiabesco ecosistema del suo immaginario – ha diritto a qualsiasi intemperanza: che essa sia misogina, misantropica, illiberale, xenofoba e persino omicida se l’opera lo richiede. Ma poi in che modo Roth sarebbe misogino? Qual è il problema? Il machismo dei suoi eroi, la spregiudicatezza di alter ego libertini e sessuomani? La sboccatezza? Il cinismo? Se questi sono i parametri estetici di riferimento, consiglio a chi se ne fa portatore di sbarazzarsi dell’intera letteratura occidentale e ritirarsi in convento. Del resto, la sola forma di misoginia che rischia un romanziere si esaurisce nella creazione di personaggi femminili corrivi, disumani e implausibili.
Al di là del rapporto a dir poco controverso che Flaubert e Tolstoj intrattenevano con il mondo femminile (rapporto che, peraltro, riguarda solo loro, non certo i ficcanaso e i patiti di gossip letterario), sfido chiunque, almeno da un punto di vista artistico, ad accusarli di misoginia. Mi pare che un discorso analogo valga per Roth. Il Teatro di Sabbath, il suo capolavoro più audace e controverso, mefitico e straziante, mette in scena due personaggi – Drenka e Nikki – che a giudizio di chi scrive meritano un posto accanto alle grandi eroine della letteratura: Francesca, Fedra, Isabel Archer.
Insomma, c’è più moralità in una virgola di Philip Roth che nell’animo risentito di qualunque suo antico, nuovo o futuro detrattore.