Corriere della Sera, 6 aprile 2021
Intervista all’arcivescovo di Milano Mario Delpini
«Se l’animo è occupato dalla paura e agitato, dove troverà dimora la speranza?». L’arcivescovo di Milano, Mario Delpini, guarda oltre le emergenze provocate dalla pandemia e indica alcuni temi su cui riflettere per ricominciare a «parlare d’altro».
Monsignor Delpini, dopo oltre un anno di resistenza alla pandemia e alle difficoltà economiche, a Milano coglie più segnali di solidità e ripresa o di fragilità e sfaldamento dei legami sociali?
«La città ferita non si lascia descrivere con una sola immagine. Io la vedo come un’orchestra che sta provando: ne vengono rumori dissonanti, pezzi di melodie, suoni sgraziati, passaggi virtuosi. I musicanti stanno provando: presto sarà eseguita la sinfonia. Io la vedo come una palestra: si praticano esercizi, ma non ci sono gare. Ciascuno pratica il suo sport: corrono, ma non vanno da nessuna parte. Tante solitudini: ciascuno ha cura di sé, si tiene in forma; meglio stare distanti dagli altri. Io la vedo come un organismo molto complesso. Ogni parte deve funzionare perché l’insieme funzioni. Ma in ogni parte non ci sono ingranaggi, ma persone: si alzano ogni mattina e si danno da fare perché la città funzioni. Alcuni si alzano anche di notte. Io la vedo come la strada che scende da Gerusalemme a Gerico, secondo la parabola raccontata da Gesù: ci sono molti poveracci lasciati malconci lungo la strada e ci sono molti samaritani che si fermano e si prendono cura di loro. E poi c’è la città che non vedo: gli eroismi e le meschinità, gli affetti e gli strazi, le violenze e gli usurai, i santi e i sapienti, gli stupidi e gli imbroglioni. Insomma io non vedo una città monocolore. Però credo che il punto di vista che comprende meglio la città è quello della Madonnina sulla guglia più alta del Duomo. La Madonnina – credo – vede la città come una comunità che merita di essere amata».
I cittadini hanno assistito a molte situazioni confuse nella gestione di questa emergenza. Secondo lei hanno ragione a chiedere di più a chi li amministra o serve più indulgenza verso chi li guida in questa traversata?
«Né indulgenza né pretese. Piuttosto buon senso, senso di responsabilità, competenza, pazienza, efficienza. Il rapporto del cittadino con le istituzioni non è quello del cliente che “siccome ha pagato, ha sempre ragione”. Il cittadino non è neppure un bambino a cui si può dire: “Fa’ così, perché te lo dice il papà”. Si deve però dire che l’emergenza può scombinare molte cose».
A Milano abbiamo assistito a un aumento delle povertà e dei bisogni, ma anche di iniziative di solidarietà nuove, molte nate nel mondo cattolico e in sintonia con le istituzioni. Da questa esperienza potrà uscire un nuovo modello di collaborazione con il sistema pubblico?
«Nessuno ha da guadagnarci da un modello caratterizzato da estraneità o da concorrenza o da contrapposizione tra corpi intermedi e istituzione pubblica. La tradizione ambrosiana ha sempre cercato un modello di collaborazione. Le emergenze forse hanno costretto a forme più abituali. Ma non c’è niente che si consolidi se non è pensato, voluto e costruito con competenza e lungimiranza. Un “nuovo modello” non uscirà di per sé da qualche esperienza vissuta in tempo di emergenza. Richiederà motivazioni, pensiero e decisioni».
In alcuni suoi interventi lei ha parlato di «emergenza spirituale». Perché?
«Intendo lanciare un allarme: se il virus occupa tutti i discorsi non si riesce a parlare d’altro. Quando diremo le parole belle, buone, che svelano il senso delle cose? Se il tempo è tutto dedicato alle cautele, a inseguire le informazioni, quando troveremo il tempo per pensare, per pregare, per coltivare gli affetti e per praticare la carità? Se l’animo è occupato dalla paura e agitato, dove troverà dimora la speranza? Se uomini e donne vivono senza riconoscere di essere creature di Dio, amate e salvate, come sarà possibile che la vicenda umana diventi “divina commedia”?».
In questi mesi lei ha continuato a visitare parrocchie, case di riposo, istituti religiosi, opere sociali. Come sta il mondo cattolico ambrosiano? Come reagiscono i preti a questa crisi?
Serve una alleanza per con-trastare le forze ostili che corrom-pono i giovani e sono pervasive, offrendo un piacere che rovina la salute e l’anima
«I preti sono di quelli che si alzano ogni mattina e si domandano: che cosa posso fare oggi per seminare speranza? E pregano. Poi cominciano a pensare: che cosa c’è da fare oggi? Allora vedono nell’agenda a che ora è il funerale. Le nostre comunità hanno fatto troppi funerali e perciò c’è un po’ un’aria da funerale. Reagiscono i volontari: ci sono forme di sollecitudine commoventi, dappertutto. Reagiscono i preti. Aiuta il calendario: arriva la domenica delle palme e ci siamo ingegnati a celebrare una festa non tanto festosa, ma intensa. Arriva Pasqua e ci siamo preparati per celebrazioni con presenze ridotte, con corali ridotte, con processioni ridotte. Il mistero che celebriamo non si è ridotto. Una gioia sorprendente, per chi l’accoglie! Arrivano le prime comunioni e le cresime: forse mai così ordinate, mai così raccolte. I ragazzi sono imbambolati o concentrati? Chi sa? Insomma io sono pieno di ammirazione per i preti e per tutta la gente delle nostre comunità, ma non posso nascondermi le fatiche, le tristezze, le solitudini, le stanchezze. E poi i malati, troppi malati. E poi i morti, troppi morti!».
Lei è il Presidente dell’Istituto Toniolo dell’Università Cattolica. Sta cambiando la formazione scolastica, l’idea di scuola e università. Come vive questo passaggio?
«Ponendo domande. So che gli interlocutori sono seri e competenti. Domando: che cosa si può pensare di questa cultura? Che cosa si può pensare di questa economia? Che dire di questa urbanistica, di questa finanza? Che cosa si può pensare di questa dinamica della società, o di queste relazioni internazionali? Pongo domande: cattolico italiano, che cosa pensi? So che l’Università Cattolica può affrontare le sfide perché ha un patrimonio di saggezza e ha un senso di responsabilità. Abbiamo bisogno di franchezza e di coralità».
Colpisce molto anche quello che lei ha definito «lo strazio dell’impotenza», puntando il dito sull’emergenza e la precarietà della situazione dei ragazzi, degli adolescenti in particolare.
«Si comprende la preghiera accorata, mentre la chiesa continua ad avere cura dei ragazzi e dei giovani... La Chiesa porta il suo contributo specifico: annuncia che la vita è una vocazione, è una grazia, una responsabilità. In particolare la chiesa ambrosiana, coerente con la sua tradizione, offre strutture e percorsi per accompagnare con gli oratori, le scuole, lo sport, le iniziative aggregative, i movimenti ecclesiali. Ma serve una alleanza: per condividere una visione delle priorità, per convergere di fronte a sfide formidabili, per accompagnare percorsi complicati. Famiglie, chiesa, scuola, sport, cultura in genere, istituzioni sono chiamate all’alleanza per affrontare l’emergenza educativa. Risponderanno all’appello? Serve una alleanza: per contrastare le forze ostili che corrompono i giovani e sono particolarmente pervasive offrendo un piacere che rovina la salute e l’anima imponendo dipendenze, spegnendo la speranza e il senso di responsabilità. Serve una alleanza e una radicale fiducia in Dio che vuole salvare tutti e attira tutti a sé, anche i giovani di questa generazione».
E poi ci sono gli anziani, che qui in Lombardia hanno subito parecchi disagi anche in occasione della campagna vaccinale...
«Forse nella complessità della macchina organizzativa si è inserito qualche algoritmo impazzito. Il personale che conosco io è dedito, attento, gentile, competente. Come può essere che ci siano tanti disagi per confusioni, indicazioni bizzarre, richieste inevase, attese deluse? Credo che gli esperti dovrebbero trovare l’algoritmo impazzito e ricondurlo al buon senso».
In questi quattro anni da arcivescovo di Milano ha definito un suo stile: sempre in mezzo al popolo delle parrocchie, minore protagonismo nello spazio pubblico dell’agorà cittadina: perché questa scelta?
«Non mi ritrovo nella figura del “protagonista”. Io sono solo un servo. In particolare mi piacerebbe essere a servizio dell’unità della Chiesa, una comunità in cui tutte le componenti sono irrinunciabili e devono assumersi le loro responsabilità. Una Chiesa unita è la comunità che deve generare laici preparati, onesti, autorevoli per entrare nello spazio pubblico ed essere amministratori lungimiranti e capaci, politici dediti al bene comune per l’oggi e per il futuro. Laici cristiani a servizio del bene comune. Neppure a loro piace la figura del “protagonista”».
Una Chiesa unita è la comunità che deve generare laici preparati, autorevoli, per essere ammini-stratori capaci
e politici dediti al bene comune
In autunno si voterà per il nuovo sindaco di Milano. Secondo lei quali dovrebbero essere le priorità per i nuovi amministratori?
«Chi si azzarda a fare un elenco può riempire pagine di sogni. Ho spesso proposto di progettare il convivere in città intorno alla famiglia: solo l’alleanza di tutte le risorse della società per una famiglia sana può porre rimedio alla solitudine degli anziani, alla crisi demografica, all’emergenza educativa. Gli aspetti economici, ambientali, urbanistici sono evidentemente irrinunciabili: invocano però un criterio. Credo che il criterio sia il bene della famiglia».