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 2021  aprile 06 Martedì calendario

Putin, le spie e la guerra fredda

Sembra quasi che il mondo si sia fermato con il lockdown, anzi ritorni indietro, quando seguiamo le movenze da Anni Settanta delle spie russe nascoste sotto la livrea diplomatica, mentre scambiano soldi e segreti militari nella periferia romana con il capitano di fregata italiano che tradisce il suo Paese. Di colpo torniamo alla Guerra fredda, con il contorno di depistaggi, documenti riservati, foto nascoste, mentre Mosca e la Nato riaprono la vecchia partita a scacchi e l’Italia si trova di nuovo sulla linea di frontiera. Come se l’Ottantanove avesse cambiato la storia e la geografia del mondo, abbattendo il Muro che lo divideva a Berlino, ma non riuscisse a cambiare il destino della nostra relazione con la Russia, condannata a inscenare e replicare in eterno il conflitto tra Est e Ovest che non riesce a finire.
Oltre la storia del Novecento, dopo la sconfitta dei totalitarismi, nonostante la vittoria della democrazia, quel conflitto evidentemente non solo resiste e sopravvive, ma si riproduce, trovando nuove ragioni di sopravvivenza e nuovi spazi di azione, e riesce a mutare per adattarsi ai tempi che cambiano. C’è dunque qualcosa di più profondo che lega e contrappone quei due mondi anche quando l’Unione sovietica ridiventa Russia, fuoriuscendo dopo settant’anni dalla corazza ideologica del bolscevismo. Qualcosa che ha condannato l’uomo occidentale a interrogare ancora e sempre la sfinge russa per interpretare l’enigma del futuro, mentre d’altra parte quella figura mitologica che sa diventare Orso, in ogni epoca ha gli occhi fissi sull’Europa.
Stiamo parlando di un confronto- scontro profondo, sul piano politico e culturale, ma non solo. Nel rapporto tra Europa e Russia infatti si intrecciano suggestioni, ruoli scambiati, avversioni, modelli sociali, proiezioni, paure, mitologie reciproche. Mosca (e San Pietroburgo) hanno funzionato a lungo come capitali ideologiche di un contro-mondo che ha imprigionato una grande parte della sinistra europea nella fascinazione rivoluzionaria. Le grandi città europee, e prima fra tutte Amsterdam, hanno suggerito a Pietro il Grande il modello da seguire nella creazione artificiale della nuova capitale di fronte all’Europa, dove gli architetti italiani del barocco costruirono i loro capolavori davanti alle acque della Neva.
Le radici della diversità nascono insieme alle prime strategie di espansione, che seguono subito rotte geografiche diverse, su mappe concettuali contrapposte. La Russia cerca conquiste in Asia, mentre l’Europa supera il suo finis terrae e attraversa l’oceano. Da una parte, dunque, l’orizzonte è il mare, dall’altra invece è il territorio, la terraferma. Due linee di crescita completamente divaricate, che evocano universi disuguali e distanti, due strategie opposte per diventare potenza, e alla fine due concezioni differenti di futuro. Ma intanto queste direttrici di sviluppo così difformi rivelano due diverse nature mentre proiettano sulla scena i due nuovi punti cardinali che disegneranno la modernità e domineranno la geopolitica, inventandola: Est e Ovest.
Anche la religione diventa un elemento di distinzione e differenza, sia pure nella genuflessione allo stesso Dio. Da mille anni infatti la Russia si è convertita al cristianesimo, dopo che Vladimir il Sole aveva mandato i suoi uomini nel mondo a cercare non la fede più vera, ma la più bella. Ma la religione di Mosca è un canone, un rito e una liturgia che non rispetta e non riproduce le forme europee, perché non deriva da Roma bensì da Bisanzio, dove gli ambasciatori di Vladimir durante la messa videro il cielo aprirsi nella bellezza della preghiera, e congiungersi alla terra. Un rituale separato, dunque, e una memoria popolare che conserva il timore per la potenza misteriosa della divinità pagana. Perché la Russia sa che quando il principe fece abbattere tutti e sei gli idoli delle tribù sulla collina, Veles signore dell’acqua, Khors dio del sole vecchio, Dazbog padrone del cielo, Stribog re del vento, Simargl arbitro della fertilità, Mokos dominatore della tempesta, l’unico che sopravvisse fu Perùn terribile, dio del fulmine e del tuono: non volle affondare nelle acque del Dnepr dove lo avevano gettato per ordine del sovrano, segnando il destino della Rus’ con la sua promessa fondatrice ed eterna di distruzione.
L’altra religione, quella rivoluzionaria, attraversava il confine tra Est e Ovest, affascinando nel 1917 i popoli, spaventando i governi. La Russia radicalizzava la filosofia sociale dell’Europa, si faceva erede delle sue teorizzazioni più estreme, proponendosi di realizzare quell’utopia nella terra dello Zar: dove una dinastia autocratica regnava da tre secoli, con il popolo che chiedeva a Dio “salva l’imperatore/ forte e maestoso/ che per la nostra gloria/ regna sul nemico atterrito”. La polarizzazione della guerra fredda, che univa Europa e America in un’alleanza di contenimento dell’Unione Sovietica, generava nella paura atomica altri due concetti che interpretavano i due mondi: Oriente e Occidente. Così la geografia diventava politica, anzi direttamente ideologia. Tanto che quando Jurij Gagarin il 12 aprile 1961 conquistò lo spazio con il primo volo di un uomo nel cosmo, il Cremlino marchiò la supremazia dell’Urss battezzando la navicella che aveva compiuto un’orbita terrestre proprio con quel nome, “Vostok”, Oriente. Esattamente quattro mesi dopo, Oriente e Occidente, Est e Ovest trovavano la loro traduzione fisica e materiale nel cemento e nel filo spinato del Muro che sorgeva a Berlino, monumento di pietra alla contrapposizione perpetua.
La stagione gorbacioviana della perestrojka supera la diffidenza, ma non la differenza. Gigante coi piedi d’argilla, imbalsamato dalla nomina di Cernenko alla guida del Cremlino, il sistema sovietico non può proseguire la corsa agli armamenti, e avvia la strategia del dialogo, del confronto, delle riforme. Nella perestrojka l’Urss e l’Occidente sembrano scambiarsi le parti: Gorbaciov nei suoi viaggi europei raccoglie un consenso mai visto per un leader sovietico, ma in patria l’equilibrio tra la struttura autoritaria e la gestione del potere tollerante non regge e l’uomo che l’Europa acclama come il primo riformatore, a Mosca viene criticato come l’ultimo segretario generale. Si ribellano le repubbliche che chiedono la loro indipendenza, protestano i progressisti per il passo troppo lento delle riforme, reagiscono i conservatori del partito, dell’esercito, del Kgb con un golpe che il presidente della Russia, Eltsin, ribalta imponendo a Gorbaciov la fine dell’Urss e la dissoluzione dell’impero.
È in questo momento di debolezza e di smarrimento che l’Europa avrebbe potuto dialogare con Mosca per spingerla ad una seconda conversione, questa volta alla democrazia dei diritti e delle istituzioni, scambiando aiuti in cambio di riforme. L’Occidente compie probabilmente qui un errore storico, perché non gioca la carta della pressione per una trasformazione democratica dell’Urss ridivenuta Russia: anzi, sbagliando, ritiene che Mosca sia ormai ridimensionata nelle sue ambizioni e nella sua influenza, e possa essere retrocessa al rango di potenza regionale. È una sottovalutazione, ma soprattutto un’incomprensione, perché non tiene conto che la dimensione imperiale della Russia non è una sovrastruttura dello stalinismo, ma un elemento della natura russa, parte della sua anima, qualcosa di insopprimibile in quanto eterno. Il consenso di Putin, e la ripulsa postuma di Eltsin e Gorbaciov a Mosca, si spiegano proprio attraverso questa perennità imperiale che vuole sopravvivere, un’autocoscienza a cui l’Occidente non ha dato un segno di riconoscimento, provando a pilotarla verso un approdo democratico.
Piuttosto, Vladimir Putin ha giocato la carta contraria, andando direttamente all’attacco della cultura liberale che è alla base delle costituzioni e delle istituzioni europee, giudicandola “obsoleta”, perché il liberalismo ha tradito i suoi presupposti e non è più capace di rappresentare gli interessi dei cittadini. Da Mosca dunque, alla fine di questa contrapposizione storica, arriva l’arma finale, un pensiero politico che separa la democrazia e il principio liberale, aprendo la strada a un’inedita “democrazia autoritaria”. E così il cerchio si chiude: finito il secolo della rivoluzione, la Russia torna a essere per l’Europa quello che l’800 chiamava “il nemico ereditario”, accumulando in pochi anni antagonismo militare (con la penetrazione in Medioriente e le mire sul Mediterraneo), espansionismo sovranista (la Crimea), infiltrazione strategica (i cyber-attacchi), compravendita di segreti Nato, il tutto rivestito da una nuova vernice ideologica, con la teorizzazione putiniana dell’autoritarismo come cultura politica e istituzionale figlia perfetta dei tempi, dopo la stagione esausta della democrazia.
È chiaro l’interesse europeo ad evitare che la frattura si allarghi e il rapporto precipiti, travolgendo interessi geopolitici, scambi industriali, commerciali, culturali tra due mondi condannati a confrontarsi e a parlarsi. Ma è chiaro anche, alla fine, l’interesse democratico a conoscere davvero il rapporto del sovranismo italiano con la strategia imperiale e antieuropea di Mosca. A partire da quello scandalo registrato – e mai chiarito – tra la penombra di velluto del Metropol, dove faccendieri leghisti legati a Salvini svendevano pezzi di politica estera italiana in cambio della promessa di una tangente petrolifera, mentre il leader alla luce dei riflettori annunciava: “Io qui in Russia mi sento a casa mia, in alcuni Paesi europei no”. Da che parte sta la Lega, quindi, e soprattutto: se andasse al governo, da che parte starebbe l’Italia tra la Russia e l’Europa?.