la Repubblica, 6 aprile 2021
Le piccole donne della grande Dorothy Parker
Anticipiamo la prefazione alla raccolta di racconti “Tanto vale vivere” che torna in libreria Ritratti ironici e senza sconti della borghesia newyorkese
Dove sono finite le benefattrici crudeli, le amorevoli tiranne, le razziste raffinate? Le grandi noiose? Dove sono finite le donne? Le meravigliose insopportabili donne che Dorothy Parker ci ha raccontato, le donne cattive per l’infelicità, insoddisfatte nelle loro misere libertà, frustrate dai loro labili amori, nemiche delle altre donne, vendicative nelle loro mute rivendicazioni? Adesso siamo altre perché molto, anche se non tutto, siamo riuscite a cambiare, in meglio, e forse l’unica cosa che abbiamo perduto nei meandri spinosi del festoso femminismo diventato parità di genere un po’ musona è la voglia di ridere, l’ironia, l’autoironia.
La scrittrice americana divenne famosa per i suoi racconti fulminanti, oltre che per i suoi versi, pubblicati nelle riviste colte sin dagli anni venti, e che, continuamente ripubblicati, anche in questa raccolta risultano contemporaneamente dolorosi e divertenti, molto spiritosi e molto drammatici: vite di coppia della ricca borghesia newyorkese, ritratti di donne insoddisfatte e presuntuose, eleganti e furibonde, disperate e artificiose. Come «la donna con i papaveri di velluto rosa che facevano corona sui capelli dorati, non del tutto naturali» che va sentendosi un’eroina al ricevimento in onore di un cantante di colore, e per dimostrare il suo animo democratico continua a trillare quanto le piacciono i neri, come anche il marito li adora tanto che non vorrebbe mai un servitore bianco, e non siamo forse tutti esseri umani? Per scrivere con tanta eleganza e perfidia bisogna aver avuto un’esistenza non facile, che ti ha obbligato a trovare rifugio nella tua intelligenza e nella tua fragilità, e infatti da subito la scrittrice ha conosciuto la fatica di vivere. Nata nell’agosto del 1893 in una piccola città del New Jersey, suo padre, Jacob Henry Rothschild, mercante benestante di famiglia ebraico-prussiana, sua madre di origine scozzese, allevata nel convento del Sacro Cuore di New York, a cinque anni resta orfana di madre, con una matrigna mai accettata che lei chiamava La Governante, e un padre violento da lei odiato. Nel 1914, a ventun anni, riesce a pubblicare i suoi primi versi su Vanity Fair, la assumono a Vogue a dieci dollari la settimana per scrivere le didascalie e si sposa con un gentiluomo della finanza, Edwin Pond Parker II, da cui divorzia pochi anni dopo. Terrà per tutta la vita il suo cognome, Parker, anche dopo un altro matrimonio. Dal secondo numero del New Yorker del 28 febbraio 1925 inizia la sua collaborazione che durerà ininterrotta sino al dicembre del 1957. «È uno strano incrocio tra la piccola Nell (l’orfanella adolescente di La bottega dell’antiquario di Dickens) e Lady Macbeth», diceva di lei il critico Alexander Woollcott, tra i fondatori con lei del celebre Algonquin Round Table, un gruppo di letterati chiacchieroni che si riuniva a pranzo in quell’albergo. Era una donna piccina, graziosa, con grandi occhi verdi da gazzella, tristi e miopi, ma come tutte le donne di allora non portava mai gli occhiali alla presenza di uomini seducibili; ne aveva fatto anche un verso: «men seldom make passes / at girls who wear glasses» (a me sedicenne molto miope mia madre proibiva di uscire con gli occhiali, «perché se no pensano che leggi»).
Famosa nel suo cerchio sofisticato per il genio letterario, Parker era invitata nelle case più opulente anche per la conversazione brillante, e c’era addirittura chi la seguiva per strada sperando di strapparle una battuta divertente. In realtà, ricordavano gli amici, era una donna romantica, sentimentale e delusa dai tanti amori che franavano presto, malinconica, timida come alcune sue eroine, amante dei fiori e degli animali. Aveva avuto un aborto, niente figli, più di un tentativo di suicidio. Negli ultimi anni della sua vita si era rifugiata in un albergo di New York, sola col suo barboncino, in uno stanco disordine, coi ricordi amari della gente che «rideva prima ancora che io aprissi bocca». I suoi racconti degli anni d’oro continuavano a essere pubblicati e apprezzati, anche se il suo mondo, il mondo delle flapper, di Fitzgerald, di Clark Gable, era scomparso. Ma non certo gli uomini dei suoi racconti che, pur decimati, resistono tutt’ora; come l’orribile Mr Durand, il contabile di una fabbrica di gomma che seduce l’impiegatina Rose, la mette incinta e poi, nel terrore che gli rovini la bella famigliola, trova chi lo aiuta a far abortire la ragazza (e allora si trattava di un crimine), la fa licenziare e la rimanda al suo paese. E ci andrà di mezzo pure una misera cagnetta. Nel 1933, a quarant’anni, la scrittrice sposa lo scrittore e attore Alan Campbell, bisessuale dichiarato, e insieme vanno a Hollywood, dove troveranno subito lavoro come sceneggiatori, lei con uno stipendio quattro volte quello del marito: collaboreranno a una quindicina di film, otterranno nomination agli Oscar nel 1937 con il primo È nata una stella, protagonista Janet Gaynor, e nel 1941 con Piccole volpi, regista William Wyler, tratto dal dramma teatrale di Lillian Hellman, con Bette Davis. I Campbell divorziano nel 1947, si risposano nel 1950, si separano due anni dopo, sempre restando amici, e lui morirà forse suicida, nel 1963, quando lei settantenne tornerà a New York, distrutta dall’alcol, disillusa, spenta. Da decenni ormai ha abbandonato i racconti, scrive senza passione critiche letterarie, ma ormai la Grande Dorothy delle sue Piccole Donne non c’è più. Ci sono i suoi racconti che adesso hanno cent’anni e sono tuttavia molto contemporanei, forse perché tutto cambia, tutto si rivoluziona, ma la natura umana resta intoccata. Gli occhi della scrittrice non sono femministi: gli uomini dei suoi racconti sono soprattutto vittime della gelosia, del rancore, della stupidità, dell’avidità, del disprezzo, delle donne, e non so come reagiranno alla lettura le ragazze agguerrite di oggi che stanno spigolando il cinema e pure la letteratura per eliminare comportamenti maschilisti e figure femminili non consone alla liberazione. Le donne di Parker vivono in belle case dagli arredi leggiadri, con mariti sempre in fuga ma sempre lì, pensano ai vestiti, si sentono generose con il personale di colore, passano le giornate nei grandi magazzini o tra loro a lodarsi e odiarsi.
L’ironia che sfiora la ferocia con cui Dorothy Parker racconta le vite della borghesia piccola e grande, egoista e sprezzante, nasce non solo dalla sua maestria di artista, ma anche dalla sua passione politica, che durerà tutta la vita. Nel 1927, a trentaquattro anni, era finita in galera per aver partecipato a Boston alle proteste contro la condanna e l’esecuzione di Sacco e Vanzetti, e poi aveva sempre seguito le manifestazioni per i diritti civili, negli anni trenta si era iscritta alla Hollywood Anti-Nazi League e poi al Anti-Fascist Refugee Committee. Nel 1950 viene inclusa nella Lista Nera di Hollywood con un dossier di mille pagine e quindi, come per tutti gli altri artisti sospettati di comunismo, esclusa dagli Studios. Il suo ultimo gesto politico è quello di nominare suo erede Martin Luther King, e dopo la sua morte (viene assassinato nell’aprile del ’68) alla National Association for the Advancement of Colored People. Dorothy Parker muore di infarto il 7 giugno 1967 nel piccolo albergo in cui viveva, aveva settantatré anni. Viene cremata e nessuno ne chiede le ceneri: l’epitaffio che aveva lasciato era scusate la polvere. Per anni l’urna viene continuamente spostata, poi finalmente il 22 agosto del 2020, cinquantatré anni dopo la sua morte, ha trovato finalmente sepoltura definitiva nell’antico cimitero del Bronx.