Specchio, 4 aprile 2021
Intervista ad Alex Schwazer
Di cadute e rinascite, drammi e trionfi, favole, intrighi e redenzioni è piena la storia dello sport. Alex Schwazer ha vissuto un po’ tutto. Scorrendo la trama della sua esistenza verrebbe da dare ragione a Pablo Neruda secondo cui «nascere non basta, è per rinascere che siamo nati». Lui, Alex, c’era già riuscito una volta dopo la positività al doping (confessata) nel 2012. Tre anni di stop, poi la qualificazione ai Giochi di Rio. Ma proprio a un passo dal chiudere il cerchio, alla vigilia delle Olimpiadi brasiliane che avrebbero sancito la sua parabola di riscatto, è arrivata la nuova mazzata. Ancora positivo al doping e ancora sospeso. Sono passati quasi 5 anni ma quel 21 giugno 2016 è difficile da dimenticare.
Cosa ricorda di quel giorno?
«Poco o nulla. Se ci penso oggi nella mia mente c’è un grande buio. Ero precipitato in uno stato di choc».
Si può dire che quello sia stato il punto più basso della seconda caduta?
«Non saprei, perché a metà agosto in attesa della sentenza sportiva sono andato comunque a Rio con la speranza di partecipare ai Giochi. Poi è arrivata la condanna a 8 anni. Per andare in aeroporto e rientrare in Italia abbiamo percorso la strada dove l’indomani ci sarebbe stata la 20 chilometri di marcia. Tornavo a casa senza colpe e per farlo il destino mi aveva portato proprio su quel tracciato. Forse fu quello il momento più duro».
La rinascita quando è iniziata?
«Non è stato un momento, direi più che altro un processo fatto di piccoli passi. Sapevo di essere innocente, poco per volta mi sono convinto che la verità sarebbe venuta fuori».
Come è stato vivere quei mesi che poi sono diventati anni con l’accusa di essere un atleta recidivo al doping, imbroglione e scorretto?
«Mi sono trovato in una situazione molto sfortunata, ma oggi posso dire di essere stato anche fortunato. C’era il rischio che la mia vita si distruggesse, invece proprio da lì ho iniziato a ricostruirla».
Come?
«Alla fine del 2015 avevo conosciuto Kathrin, lei è stata fondamentale in questo viaggio. Altre coppie in un momento come quello si sarebbero dissolte, noi invece abbiamo creato una famiglia. Nel 2017 è nata mia figlia Ida, nel 2019 ci siamo sposati e nel 2020 è nato Noah. Loro sono tutto per me».
E poi?
«Poi mi sono reinventato un lavoro, allenatore per atleti dilettanti. Sono arrivato a gestirne anche 30 contemporaneamente. Avere tanti impegni ogni giorno, dalla famiglia al lavoro, mi ha messo di buon umore. Certo, se fossi stato da solo sarebbe stato complicato».
Ha scoperto lati nascosti di Alex?
«La marcia mi aveva insegnato due valori fondamentali: la pazienza e la tenacia. Ero già pronto, ero già abituato a lottare».
Crede in Dio? La fede ha avuto un ruolo in questo percorso di resistenza e rinascita?
«No. Io non ho invocato miracoli, non mi sono affidato ad altri. Sapevo che c’erano elementi da scoprire e mi sono concentrato sui fatti. In certe situazioni la fede può aiutare, ma in questo caso ero io che dovevo agire. Se non avessi lottato in prima persona, la giustizia non sarebbe mai arrivata».
Esistono anche culti più pagani a cui affidarsi...
«Io mi sono concentrato sulla quotidianità, fatta di cose semplici. La montagna per esempio. Ci sono cresciuto, per me la montagna è soprattutto bellezza rassicurante, d’inverno come d’estate. Basta uno sguardo alle vette per rilassarsi e trovare pace».
Oltre alla famiglia cosa l’ha aiutata nei momenti di sconforto?
«Mi sono fatto una domanda: come avrei vissuto il resto della mia vita se mi fossi arreso? Ecco, la risposta è stata la molla che mi ha fatto andare avanti. Mi hanno tolto almeno un’Olimpiade e tanti anni di gare. Non potevo accettare quella fine».
Ha mai pensato di non farcela?
«Ovviamente ci sono stati momenti difficili, ma quando sei innocente non perdi mai la speranza».
L’Alex di oggi è una persona diversa da qualche anno fa?
«Sì, tutti noi cambiamo. Oggi mi vedo come un uomo più completo. Nel 2016 lo sport era super importante per me, adesso il "super" lo tengo per altro».
Guardando indietro c’è qualcosa che non rifarebbe?
«Certo. Un atleta come me non ha bisogno di doparsi, il 2011 e il 2012 li rivivrei diversamente, ma ora è facile fare questi discorsi».
Che aspetto ha la felicità per Alex Schwazer?
«Quello della mia famiglia».
Nient’altro?
«Spero che a breve venga fatta chiarezza anche sul mio futuro sportivo. L’obiettivo è andare alle Olimpiadi di Tokyo, me lo sogno anche la notte».
Il giudice ha stabilito che lei è stato incastrato, ma non si conoscono i responsabili. Sarebbe pronto a perdonarli?
«Sì, sono pronto anche a quello. Lo farei per chi ha sbagliato e lo farei per me stesso. Chi non è capace di perdonare non è in grado di superare il trauma. E io dopo tutto questo tempo non ho più voglia di soffrire».