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 2021  aprile 04 Domenica calendario

Mia Farrow racconta l’amico Philip Roth

Mia Farrow e Philip Roth hanno condiviso un’amicizia lunga trent’anni. Sono stati l’una l’approdo dell’altro nei momenti più delicati delle loro straordinarie esistenze. In questa lunga intervista – realizzata in occasione dell’uscita in lingua inglese il 6 aprile della biografia definitiva di Blake Bailey dedicata a Philip Roth – Mia Farrow apre uno spiraglio nel privato di un gigante della letteratura. Roth, spiega Farrow, raggiunta al telefono da «la Lettura», era un amico sincero e rassicurante, un uomo che per tutta la vita s’è portato dentro le ferite mai rimarginate di due matrimoni difficili, ma che aveva il dono di entusiasmarsi come un ragazzino di 12 anni. «Era una persona meravigliosa, sono felice di parlare di lui».
Che cosa ricorda del vostro primo incontro?
«È stato in un ristorante nella Contea di Litchfield, all’epoca abitavamo entrambi in Connecticut. Vivevamo molto vicini. Non ricordo l’anno. Era prima che uscisse il film Crimini e misfatti, sarà stato verso la fine degli anni Ottanta. Philip era con la donna che sarebbe diventata la sua seconda moglie, l’attrice Claire Bloom, con cui avrei lavorato molto presto. Io ero con alcuni miei figli; ci siamo fermati a salutare. Sono state due chiacchiere veloci al loro tavolo, ma ricordo la grazia che Philip portava dentro di sé. Si è alzato in piedi per presentarsi, come un gentleman; altrettanto fece Claire, una donna davvero elegante. Erano una coppia maestosa. Avrei rivisto Philip tempo dopo, questa volta a un party. In quel periodo avevo già lavorato con Claire, proprio in Crimini e misfatti di Woody Allen. Una sera Claire mi invitò a cena. Scendeva tantissima neve, non riuscivo a trovare la loro casa, era pieno di stradine secondarie, vivevamo tutti in aperta campagna. Philip suggerì di incontrarci fuori da un negozio di liquori, vicino a una cabina telefonica – i cellulari non erano ancora diffusi. Ci eravamo messi d’accordo che lo avrei chiamato da quel telefono appena arrivata al negozio. Allora lui sarebbe venuto a prendermi e mi avrebbe scortato in macchina fino a casa sua. Una parte di me è californiana, l’altra è irlandese, non ero adatta al clima severo del New England, non mi sentivo a mio agio a guidare con tutta quella neve.
«Andò tutto bene. Philip venne a prendermi e guidò davanti a me. Guidava così piano che mi sorpresi di nuovo a pensare: “Che gentleman!”. Arrivammo in questa bellissima casa di campagna, a Warren, in Connecticut. Sua moglie stava cucinando qualcosa al volo, erano appena tornati da New York. C’era anche la figlia di Claire, Anna. Philip mi presentò gli ospiti; fu una serata molto piacevole. Accese il fuoco e ci sedemmo attorno, Anna rimase al tavolo. I dolori alla schiena non gli davano tregua, perciò Philip si sdraiò sul divano. Chiacchierammo tutta la sera. Poi mi riaccompagnò indietro, sempre scortandomi con l’auto: l’ho raccontato anche a Bailey per la biografia di Philip. Lì nacque la nostra amicizia.
«La volta dopo ci incontrammo nella casa dello scrittore William Styron, a Roxbury; erano già gli anni Novanta. Conoscevo gli Styron da sempre, da quando avevo 18 anni. Ero felice da loro. C’era un sacco di gente quella sera. Philip non stava più con Claire. Avevano appena divorziato. Ridevamo e ci divertivamo. C’era anche il presidente della Repubblica Ceca, Václav Havel, negli Stati Uniti per un viaggio istituzionale. Tutti gli ospiti volevano conversare di questioni che riguardavano la Nato. A un certo punto, Philip ed io uscimmo e andammo verso la macchina, lui non aveva alcun interesse a parlare della Nato, voleva solo divertirsi, chiacchierare del più e del meno. Allora ci mettemmo in macchina a parlare, si era portato anche il busto per la postura, segno che non aveva alcuna intenzione di ritornare alla festa. Poi ci salutammo e io rientrai a parlare un po’ della Nato con gli altri ospiti. La nostra era diventata una vera amicizia».

Qual è il ricordo a cui è più affezionata?
«Ne conservo molti nel mio cuore. Philip era tantissime cose: soprattutto era un grande ascoltatore. Ti stava a sentire veramente quando parlavi e faceva un sacco di domande. Io non ero abituata a uomini che ascoltavano. Lo so, non dovrei generalizzare, ma gli uomini della mia vita hanno sempre e solo parlato di sé stessi, mi raccontavano storie che riguardavano solo loro. Philip ascoltava. Sapeva che da piccola avevo avuto la poliomielite e mi invitava a casa sua per parlarne. Mi fece un sacco di domande – di quell’argomento avrebbe poi scritto in Nemesi, il suo ultimo libro. Mi chiese che cosa avessi provato a trovarmi in quella condizione, con una malattia contagiosa che poteva uccidere la mia famiglia e i miei amici. Mi chiese come reagirono le persone intorno a me, come fosse stato il ritorno a scuola. Domande che nessuno mi aveva mai fatto.
«Un giorno mi disse: voglio scrivere un libro su un attore che a un certo punto, tutto d’un tratto, non riesce più a recitare. Mi domandò se mi fosse mai capitata una cosa del genere. Mi chiese: “Hai mai avuto il terrore di non riuscire più a recitare? Di non esserne più capace, così, di punto in bianco?”. Gli piaceva parlare di cose che non conosceva. A un certo punto fu molto interessato ai cimiteri. Pensava spesso al luogo in cui sarebbe stato sepolto, una cosa piuttosto inusuale. Voleva una tomba vicino a suo padre e a sua madre, nel New Jersey. Passò una mattinata con l’uomo che si prendeva cura delle tombe di quel cimitero, dicendogli che cercava un luogo vicino ai suoi genitori dove essere seppellito. L’uomo disse che quelle tombe erano troppo piccole per lui, che era troppo alto. Gli serviva una tomba più lunga. Alla fine decise di essere seppellito al Bard College, dove c’erano alcuni dei suoi più cari amici e dove ci ritrovammo quel triste giorno di maggio del 2018. Nei momenti più bui Philip era accanto a me. Era gentile, pieno di grazia, aveva una qualità che a me è sempre mancata: la capacità di entusiasmarsi nel modo più genuino. Un giorno eravamo a cena e d’un tratto tirò fuori dalla tasca le chiavi e le posò davanti a sé. Poi svuotò ogni tasca e mise tutto sul tavolo. Allora feci lo stesso anch’io. Poco dopo avevamo una montagna di cose davanti a noi. Forse eravamo solo annoiati e non sapevamo che cosa fare. Lui era felice, senza motivo. Lo ero anch’io. Facevamo lunghe passeggiate vicino al Cornwall Bridge, non lontano da Warren. Philip era la persona ideale con cui passare le giornate. Andavamo in libreria a scoprire le novità, naturalmente in quei posti lui era molto conosciuto.
«Un giorno compilò una bellissima lista di libri per mio figlio Ronan, che all’epoca aveva 11 anni. Ronan, che in quel periodo usava il suo secondo nome, Seamus, mi disse che non gli piaceva quello che gli davano da leggere a scuola. Allora chiesi aiuto a Philip. Quella lista è una combinazione straordinaria di storia e letteratura americana. La conservo ancora. Purtroppo non c’è la data. Comincia così: Caro Seamus, Mia mi ha detto che sei interessato a leggere per conto tuo, in aggiunta a quello che ti danno ai corsi che frequenti al Simon’s Rock. Suggerisco un corso che ho pensato per te e che chiamerei “Il romanzo americano e la storia americana”. Ho scelto cinque romanzi che hanno a che fare con importanti temi storici e sociali e, per ognuno dei romanzi, segnalo una lettura supplementare. Suggerisco anche, nel caso deciderai di leggere questi libri, che tu lo faccia nell’ordine che ti metto di seguito. Comincerai con il romanzo che è uscito più di recente, quello di Styron, pubblicato negli anni Sessanta, e finirai con quello di Dreiser, scritto all’inizio del XX secolo. Per approfondire il contesto, consiglio anche di tenere a portata di mano l’Oxford Companion to American Literature (Oxford U. Press) e The Growth of the American Republic di Morison e Commager (due volumi, Oxford U. Press).
«La lettera, scritta a macchina e firmata a mano, elenca Le confessioni di Nat Turner di Styron e poi Il nudo e il morto di Mailer, Tutti gli uomini del re di Warren, Furore di Steinbeck e Nostra sorella Carrie di Dreiser. Alla fine c’è scritto: Questo dovrebbe occupare le tue ore libere per un po’ di tempo. Buona fortuna. Tuo, Philip Roth».

Quali erano le sue più grandi paure?
«Non era un uomo ossessionato dalla paura. Neanche della morte, nonostante abbia evitato l’argomento per molto tempo. Non aveva paura neanche del tempo che passa, che ha accettato con grazia. A chi gli è rimasto vicino ha insegnato come si fa a lasciare andare, come si fa ad andarsene. La cosa che temeva più di tutte era il tradimento, l’essere ingannato. Ci sono state persone nella sua vita che lo hanno tradito, non tante, sicuramente due. Non riuscì mai a superare quelle ferite. Era un uomo leale, non avrebbe mai ingannato nessuno». 
Qual è il libro di Roth che ama di più?
«Pastorale americana. Poi Lamento di Portnoy, perché è un romanzo abbagliante. Amo la storia che c’è dietro, il fatto che Philip fosse stato da uno psicoanalista perché aveva bisogno di sfogarsi. Era un momento difficile della sua vita e si sentiva sotto pressione. Parlò così apertamente e liberamente allo psicoanalista che gli venne l’ispirazione per scriverne un libro. Non voleva imporre alcuna censura a sé stesso, voleva buttare giù tutto quello che gli passava per la testa. Voleva scrivere nello stesso modo in cui aveva parlato al suo terapeuta».
Parlava del suo lavoro di scrittore?
«Non aveva segreti particolari riguardo ai suoi libri, ma non ne parlava neanche troppo. C’è stato un periodo nel quale ha vissuto in Connecticut “come un monaco”, diceva. Si alzava la mattina presto e percorreva la breve distanza che lo separava dal suo ufficio, una casetta all’interno della proprietà. Poi lavorava tutto il giorno. Negli ultimi anni lavorava in piedi per i problemi alla schiena, ma anche perché si concentrava meglio se poteva muoversi e passeggiare. Diceva che tra un romanzo e l’altro provava una profonda depressione, si sentiva vuoto, sentiva che la vita non aveva senso. Fino a quando non arrivava l’ispirazione per un nuovo libro. Ha continuato così fino all’ultimo romanzo. Dopo Nemesi è cambiato tutto. Diceva che era tornato a sentirsi un ragazzino di 12 anni, era libero di nuotare e di vedere gli amici; non aveva più alcun peso. Diceva che si era guadagnato il suo tempo libero. È cambiato molto quando ha smesso di scrivere – non pensavo che l’avrebbe mai fatto, ma sapevo che sarebbe successo perché i suoi libri diventavano sempre più brevi mentre invecchiava. Così un giorno ha detto basta. E ha mantenuto la parola. Era finalmente felice di avere giornate libere davanti a sé. Quando ha smesso di scrivere ripeteva che non riusciva più a leggere narrativa. Per molto tempo ha letto solo nonfiction. Poi, negli ultimi anni, è tornato a dedicarsi alla letteratura. Per esempio, leggeva Ta-Nehisi Coates».
Le ha mai confidato il dispiacere per non avere vinto il Nobel?
«Ogni anno, come tutti i suoi lettori, mi aspettavo che Philip vincesse il Nobel. Una volta gli chiesi per quale motivo non glielo avessero ancora assegnato. A quell’epoca, dopo Il teatro di Sabbath, avrebbe già dovuto vincerlo. Gli avevano riferito che alcune donne della commissione del Nobel, forse solo una, lo odiavano perché lo consideravano un misogino. Non amavano il tono dei suoi romanzi».
Si è portato dietro questa accusa sino alla fine.
«Per via del libro di Claire Bloom (Leaving a Doll’s House, del 1996, ndr). Io non l’ho letto, per lealtà nei confronti di Philip, e non posso dire la mia; ma so che quel libro lo ha ferito nel profondo, l’immagine che ne esce di Philip è poco lusinghiera. Poi c’è il contenuto dei romanzi, nei quali affronta temi che potrebbero avere dato fastidio ad alcune donne. I protagonisti rivendicano grande libertà sessuale, si esprimono senza filtri».
Pensa che Roth fosse misogino?
«Io posso solo parlare del Philip Roth che ho conosciuto per anni, un uomo che aveva tantissime amiche, donne straordinarie che lo ammiravano: giornaliste, dottoresse, scrittrici, tutte persone che ognuno di noi vorrebbe intorno. Non erano fidanzate, erano amiche».
Parlavate di cinema?
«Verso la fine della sua vita, durante gli ultimi cinque anni se non ricordo male, ha riguardato, forse alcuni per la prima volta, tutti i film nei quali ho recitato. Tutti. Non faceva domande su questa o su quella star di Hollywood, non era un mondo che amava. Gli sono piaciuti due film in particolare. Uno era Il grande Gatsby, che ho girato con Robert Redford, perché diceva che avevo impersonato la Daisy che si era immaginato leggendo il romanzo di Fitzgerald. Per me era un complimento fantastico, perché non sono mai stata troppo orgogliosa di quella performance. Quel libro è così potente, anche nella sua brevità. Secondo me non avrebbero mai dovuto trarne versioni cinematografiche, è troppo difficile catturarne l’essenza. Poi ha amato il mio ruolo in Rosemary’s Baby di Polanski. Non gli piaceva la storia, ma la mia performance lo aveva convinto. Di Woody Allen, invece, non capiva perché dovesse sempre raffigurarmi come un personaggio debole. Non lo sapevo neanch’io, gli dissi. A Philip non è piaciuto nessuno dei film tratti dai suoi romanzi. Diceva che non ne catturavano l’essenza».
Alla cerimonia funebre, gli amici più intimi di Roth hanno letto alcuni passaggi dalle sue opere. Qual è stato il suo?
«Ho letto un brano da Pastorale americana. Molto breve. I passi sono stati selezionati da Judith Thurman e Ben Taylor, scrittori e grandi amici di Philip».

Come furono gli ultimi anni di Philip Roth, quando smise di scrivere?
«Era felice di essere vivo, ogni giorno della sua vita. Si svegliava e si sentiva esuberante come un ragazzino di 12 anni. Anche quando soffriva di più per via della sua schiena e non poteva muoversi troppo, era pieno di gioia e di vita. Leggeva, vedeva amici, guardava film. Ricordo l’ultima chiamata al telefono, la sera in cui è morto. Anche in quell’occasione era magnifico come sempre. Mi disse quello che volevo sentirmi dire. Mi disse che non c’era niente di cui preoccuparsi, che aveva visto la cosa di cui ogni essere umano ha più paura, la morte, e che aveva camminato intorno a lei. E non c’era niente di cui avere paura. Gli dissi di non sforzarsi, di riposarsi perché la primavera stava sbocciando e che presto sarebbe stato in grado di tornare a casa. Non potevo immaginare che quella sarebbe stata la sua ultima notte. Lui lo sapeva. Mi disse che non avrebbe mai più rivisto la sua casa e che anche noi non ci saremmo mai più rivisti. Era il nostro addio. Mi manca ogni giorno.
«Philip è stato un grande insegnante, anche se non amava il ruolo istituzionale, un’esperienza che aveva vissuto al Bard College. Aveva una giovane cuoca, di nome Catherine. Voleva insegnarle tutto, pagò per la sua istruzione. Voleva darle un’ora al giorno di lezioni di storia, ma lei non se la sentiva perché diceva che era “troppo”. Philip amava condividere quello che sapeva. Ricordo quando mi raccontava di Primo Levi. Gli chiedevo di dirmi tutto dei loro incontri, tanto che comprai le opere complete di Levi in inglese. Amavo quando mi parlava dei suoi amici scrittori – l’amicizia per lui aveva un valore altissimo – gli chiedevo sempre di Saul Bellow. Philip era dotato di un’ironia fenomenale, i suoi commenti erano divertenti e profondi. Aveva l’abilità di interpretare la vita così come avveniva, così come scorreva».
Che cosa direbbe dell’America di oggi?
«Era ancora in vita quando Trump è diventato presidente. Disse che era peggio di quanto potesse immaginare, molto peggio del personaggio di Charles Lindbergh di cui aveva scritto nel Complotto contro l’America. Era preoccupato per il futuro della democrazia americana».
Quali erano i suoi momenti più felici?
«Amava trascorrere il tempo nella casa di campagna, in Connecticut. Amava nuotare nella piscina e camminare nella sua proprietà. Amava quella casa come nient’altro al mondo. Si divertiva ad andare su YouTube, anche a trovare video in cui c’ero io. Ogni tanto me li mandava. Scriveva: “Guarda Mia, qui avevi 19 anni!”. Anni fa aveva un gattino, ma si rese conto di non poterlo tenere perché era troppo occupato. “Devo scrivere, non posso prendermene cura”, borbottava. Era affezionatissimo a quel gattino, lo riempiva di cure ma dovette liberarsene a malincuore».
Che cosa le manca di lui?
«Mi manca non poterlo chiamare. Conservo i messaggi che mi ha lasciato sul telefono. Se fosse ancora qui gli farei mille domande, gli chiederei come dobbiamo interpretare questo tempo doloroso in cui viviamo. Sarebbe tutto più semplice se lui fosse qui, in questo anno nel quale siamo più lontani, confinati nelle nostre case. Un anno in cui la voce di un amico può salvarti. Ogni cosa diventava più bella dopo che parlavi con Philip. Sapeva dare a tutto il giusto peso.
«Dopo la fine del matrimonio con Claire si rifugiò in campagna e si prese una pausa da tutto. Un giorno cupo, era scesa tantissima neve, vide un opossum che portava dei legnetti nella sua tana. Philip aveva in mano le matite, i suoi legnetti, perché stava tornando dalla casetta in cui scriveva. A un certo punto ebbe come una rivelazione. Disse: “È tempo di tornare a New York, di rivedere i miei amici, di aprire la mia vita. Io e l’opossum non saremo qui per sempre. Abbiamo bisogno di vivere”».