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 2021  aprile 04 Domenica calendario

Intervista a Renzo Piano

«Parliamo di ospedali». A chiunque altro uno risponderebbe: «Scusa, ho fretta, magari ci sentiamo». Ma se a dirlo è Renzo Piano, uno risponde: «Bella idea». E in effetti è bella perché in un mondo che all’improvviso si sente sloggiato dalla felicità, l’Architetto genovese non consegna solo un progetto di Rinascimento (frase impronunciabile dopo il catastrofico siparietto Renzi-Mohammad Bin Salman), ma l’idea, concreta, di un nuovo Umanesimo. L’uomo al centro. A partire dal luogo simbolo del disastro pandemico.
Piano di ospedali ne sta costruendo sei. Tre in Grecia, uno in Uganda per Emergency, uno a Bologna e uno, il più grande mai progettato in Francia, nella banlieue a nord di Parigi. Valore del progetto: 1,2 miliardi. E’ il prezzo di una rivoluzione. Che Macron finanzia e l’Italia no.
Travolta dal torrente irreparabile dei giorni, oggi anche Parigi ha il profilo sgualcito e Rue des Archives, dove l’Architetto ha la sua elegante base operativa, sembra l’ultimo bastione di resistenza intellettuale in un’epoca in cui ci siamo rassegnati a vivere – isolati ma insieme – nella violenza disperata del presente. Piano è diverso. «Per me il presente è solo un trampolino verso il futuro». E in questa intervista – clamorosamente politica senza che di politica si discuta mai – la parola che userà più spesso sarà: bello.
Il Louvre, Les Halles, il Beaubourg. Sa quante persone ho incontrato stamattina per arrivare da lei qui al Marais?
«Poche».
Ventuno. Contate. In 30 minuti.
«Le città vuote mi provocano sofferenza. Ho sempre creduto nelle città, vorrei che l’intera Europa fosse una grande città diffusa. La città è una grande invenzione e alla fine vince sempre. Succederà anche stavolta».
Ma?
«Ma io ho riempito le città di opere pubbliche, scuole, università, ospedali o sale da concerti perché credo nella trasformazione e perché penso che queste opere rendano le città luoghi di civiltà e di convivenza. Vedere il lungo Senna vuoto mi fa stare male».
Architetto Piano, perché l’hanno incaricata di costruire il più grande ospedale di Francia?
«La pandemia forse un po’ ha inciso, ma l’ospedale nasce perché sono maturi i tempi affinché accada qualcosa».
Che cosa deve accadere?
«Un salto culturale. Gli ospedali sono ovviamente e soprattutto luoghi destinati all’eccellenza medica, ma anche luoghi in cui la passione umana è di casa più che altrove».
Abbiamo visto più immagini di ospedali quest’anno che nel resto della nostra vita. Che cosa sono diventati nel nostro immaginario?
«Non so rispondere, sono talmente abituato a proiettare le cose nel futuro che il presente mi serve soltanto come trampolino. Non mi ci soffermo, anche se una cosa mi pare che l’abbiamo capita: gli ospedali sono luoghi di passione. Intesa sia come sofferenza, sia come slancio. Fortunatamente l’architettura non è solo l’arte di rispondere ai bisogni, ma anche ai desideri, persino ai sogni».
In Italia sarebbe bastata una risposta ai bisogni.
«Non voglio entrare nella diatriba tra pubblico e privato, ma non possiamo sfuggire a questo fatto: la salute deve essere pubblica. Una volta addirittura il Ministero si chiamava della Salute Pubblica. E deve esserci un sistema diffuso. Chiunque abbia guardato la tv quest’anno sa che cosa ha prodotto lo smantellamento del sistema. Parigi, con un investimento di un miliardo e duecento milioni per un ospedale pubblico, rimette l’uomo al centro».
Me lo spiega meglio?
«Entrare in ospedale è come stare in apnea. Che tu sia malato, parente, medico o infermiere, vivi uno stato di sospensione. La passione è l’elemento dominante, una sorta di sconvolgimento interiore che si confonde alla solidarietà e al dramma di quei momenti. Gli esseri umani ne sono completamente coinvolti. E’ ovvio che l’eccellenza medica sia l’elemento di partenza, ma deve essere affiancata dall’eccellenza umana».
Come deve essere un ospedale?
«Bello. Gino Strada, di cui sono amico fraterno, mi disse che per Emergency in Uganda ne voleva uno scandalosamente bello».
Glielo ha fatto?
«Sì»
Perché «scandalosamente»?
«Sulla base di due presupposti. Il primo è che esiste un modo ignobile di vedere le cose per cui tutto ciò che viene fatto in Africa va bene così. Il secondo perché abbinare le parole bello e ospedale può suonare frivolo. E invece non lo è per niente».
Diciamo che non è la prima parola che viene in mente parlando di ospedali.
«Lo capisco, ma è sbagliato. Io parlo di primaria bellezza, di quella profonda, quella del Mediterraneo. In Grecia bello e buono, kaloskagathos, non sono mai disgiunti. E neppure in Africa dove lo Swaili mette la desinenza ‘ntsuri a tutto ciò che è bello e buono. I guru della pubblicità hanno trafugato la parola bello e noi ce la dobbiamo riprendere».
Bellezza e scienza sono due facce della stessa medaglia, è questo che ci insegna la pandemia?
«La pandemia ci insegna molte cose, ma che bellezza e scienza debbano viaggiare unite lo sappiamo da molto tempo. Umberto Veronesi lo teorizzava già 20 anni fa».
Eravate legati?
«Molto. Nel 2000 Umberto è ministro della salute. Mi chiama e mi dice: Renzo dobbiamo cominciare a lavorare su un progetto di ospedale nuovo».
E lei?
«Magnifico, tu sei la mente e io il braccio. Ti faccio da geometra».
Per fare cosa?
«Concordammo sul fatto che spesso gli ospedali dell’800 a Padiglioni erano architettonicamente molto belli. Piccole città della salute con un’ala separata dall’altra. Accoglienti, purtroppo poco funzionali. Tanto è vero che nel ’900 furono sostituiti da ospedali monoblocco, in cui la tecnica medica prese giustamente il sopravvento, ma la dimensione umana cominciò a scomparire».
Teorizzaste la sintesi tra i due modelli?
«La teorizzammo».
Poi non l’avete fatto. In Francia sì.
«Che cosa vuole che le dica? La sapienza delle cose nasce anche da questi contributi, che prima o poi si depositano nel sentire comune».
In Italia non abbiamo «sentito» abbastanza.
«Non mi va di bastonare l’uno o l’altro, io cerco di dire cose giuste, se poi non vengono fatte non dipende da me».
In Francia da chi è dipeso?
«Dal ministro competente e da Martin Hirsch, direttore degli ospedali di Parigi, dal governo e dalla Città. Questa è un’epoca di cambiamenti e Parigi è capace di colpi d’ala».
Questo è il terzo colpo d’ala che la riguarda. Cinque anni fa il grande tribunale di Saint Denis, 50 anni fa il Beaubourg.
«Noi architetti non provochiamo il cambiamento. Però possiamo interpretarlo. Anche col Beaubourg andò così. Uscivamo dal ’68, eravamo giovani e anche un po’ scapestrati, interpretammo il momento».
Perché non vi fermarono?
«Forse perché non capirono fino in fondo. Il giorno dell’inaugurazione la piazza era piena di teste coronate, quando svelarono il Beaubourg metà di loro pensò che non fosse finito. Non posso dimenticare la faccia di Giscard d’Estaing. In fin dei conti avevamo solo messo un grande vascello in mezzo alla piazza. Non fummo noi a cambiare il modo di fare i musei, semplicemente il mondo stava andando lì».
Come sarà questo ospedale a Nord di Parigi?
«Avrà un bosco sul tetto, al quinto pianto. E la natura sarà ovunque. Nei cortili e al piano terra. Naturalmente non nelle stanze, che avranno soffitti molto alti. Sarà una cittadella della salute che ospiterà cinquemila persone tra personale sanitario, pazienti e familiari. A ogni livello, però, i malati dovranno sempre avere le foglie degli alberi davanti agli occhi. La luce dovrà essere ovunque. Lavoro assieme a Stefano Mancuso, il neurobiologo vegetale».
Perché i soffitti così alti?
«Perché è più facile cambiare l’impiantistica e i nuovi ospedali dovranno essere flessibili, capaci di trasformarsi. Ne ho parlato spesso col mio amico neurologo Eric Kandel, con cui ho lavorato al Centro di Neuroscienza della Columbia University a New York. Ha visto che cosa è successo con il Covid? Interi reparti da riconvertire. Anche le stanze singole non sono un lusso, ma la presa d’atto delle nuove necessità. La battaglia tra noi e il virus sarà costante, perciò anche il tema dello screening sarà decisivo. I parcheggi, che sono molto speciali, potranno essere trasformati in terapie intensive facilmente. L’uomo protetto dalle migliori tecnologie all’interno di un edificio totalmente ecosostenibile. La prima pietra la mettiamo tra un anno».
Che effetto le fa la parola Archistar?
«E ignobile. Mi offende davvero. Evoca la frivolezza e insinua un sospetto. Fa molto male».
Ha mai provato invidia per qualcuno o, magari, per il lavoro di un collega?
«Invidia non è la parola giusta. Ho passato una vita intera a rubare. Io non esisto, sono solo la somma di quello che ho vissuto, letto, visto, conosciuto, delle esperienze che ho fatto, delle persone che ho incontrato. Quando una cosa mi piace la prendo e buonanotte. Quando vedi un bel tramonto non è che sei invidioso. Te lo godi e basta se no sei scemo. Ora non vorrei che queste sembrassero le confessioni di un pentito, perché non sono pentito. Basta restituire quello che hai preso, magari aggiungendo qualcosa».
Che cosa è, allora?
«Il mio modo per dire che l’invidia non mi appartiene».
Architetto Piano, prima diceva che con il suo mestiere cerca di soddisfare sogni e desideri. Guardando un suo lavoro, ha mai pensato: se non lo sognavo era meglio?
«Se dovessi stare al letterale della domanda direi: tornando indietro rifarei tutto quello che ho fatto».
Se dovesse andare oltre il letterale?
«Aggiungerei che a una certa età realizzi di avere fatto molte cose, però quella giusta, ma giusta davvero, ancora no. Quella bellezza lì è irraggiungibile. Credo valga per i musicisti, per gli scrittori, per i cineasti. Abbiamo braccia troppo corte per la gettata dei nostri desideri. E anche quando stai per afferrare l’uccello del Paradiso ti accorgi che ti rimangono in mano solo quattro piume. In fondo basta saperlo».