La Stampa, 4 aprile 2021
Italia e Libia, un atlante occidentale
Martedì Mario Draghi volerà in Libia. Incontrerà il nuovo responsabile del Consiglio presidenziale, Mohamed al Menfi, e il nuovo primo ministro ad interim, Abdul Dbeibah. È la prima vera missione a Tripoli di un capo di Stato straniero e soprattutto di un premier italiano, dopo le ritirate indecorose e i falsi movimenti di questi anni. Ed è una missione cruciale, non solo per la difesa del nostro interesse nazionale, ma in parte anche per la ridefinizione del nuovo Ordine Mondiale, la riaffermazione dei valori dell’Occidente, la ricostruzione del ruolo dell’Europa. Il senso sta nelle parole con le quali il presidente del Consiglio ha annunciato l’iniziativa in Senato il 24 marzo, alla vigilia del Consiglio Ue: "In Libia l’Italia difende i propri interessi internazionali e la cooperazione. Se vi fossero interessi contrapposti, non dobbiamo avere timori reverenziali verso qual che sia partner. Nel corso della mia vita mi pare di aver dimostrato estrema indipendenza nella difesa dei valori fondamentali dell’Europa e della nazione".
C’è un gigantesco strappo geo-strategico da ricucire. Le ultime pezze a colori improvvisate da Giuseppe Conte nel Corno d’Africa e nella Penisola Arabica hanno portato più malefici che benefici. I due incontri ad Abu Dhabi con Mohammed bin Zayed, tra il novembre 2018 e il marzo 2019, furono talmente inutili sul dossier libico che lo sceicco emiratino diede ordine ai suoi diplomatici di non organizzargli mai più altri colloqui con l’Avvocato del Popolo. Il blitz a Bengasi del 17 dicembre 2020, organizzato come uno spot di bassa propaganda solo per riportare a casa i pescatori mazaresi previa photo-opportunity con Haftar, è stato ancora più imbarazzante. L’ultimo premier che volò di persona a Tripoli fu Mario Monti, poco più di nove anni fa.
E questo arco temporale dà già la misura di quanto terreno abbiamo perso in quell’area. Era il 23 gennaio 2012, e il Professore portò in dono all’allora presidente Abdurrahin al-Keeb una testa di Domitilla trafugata a Sabratha nel ’69 e 15 fuoristrada da pattugliamento per i pozzi petroliferi. Poca cosa, rispetto alle attese. E soprattutto rispetto ai predecessori Berlusconi e D’Alema, che più di tutti gli altri e per motivi completamente diversi erano quasi di casa in Libia (le immagini ufficiali dei due erano esposte al Museo Assaraya Alhamra del Castello Rosso). Il Cavaliere, nella sua nuova residenza romana di Villa Grande, custodisce ancora due volumi in pelle di foto che lo ritraggono con tutti i capi delle quasi 100 tribù libiche. Volò a Tripoli tra il settembre del 2008 e l’agosto 2009, a suggello dell’amicizia personale con Gheddafi e nonostante le aspre polemiche suscitate in Europa dalla liberazione di uno dei terroristi condannati per la strage di Lockerbie. Ci tornò il 13 giugno 2010, con tanto di visita nella tenda del Rais montata all’interno della caserma Bad el Azyzyia, per negoziare la liberazione di tre motopescherecci siciliani. E poi il 29 novembre 2010, per il vertice Africa-Europa e subito dopo le clamorose rivelazioni di Wikileaks sulle relazioni pericolose del dittatore.
Dalla caduta del regime innescata dalle bombe della "coalition of the willing" guidata da Sarkozy, a parte i viaggi estemporanei dei ministri degli Esteri di turno (da Gentiloni a Di Maio), i nostri capi di governo si sono tenuti alla larga da quel delicatissimo crocevia di intrighi diplomatici, dividendi economici e disastri umanitari. La stessa cosa hanno fatto i leader europei e i penultimi presidenti americani. Questa ignavia la stiamo pagando cara, in ogni senso. Per l’Italia, c’è il costo della provvista energetica (da quei deserti l’Eni continua a pompare quasi il 30 per cento delle sue attività) e il prezzo della destabilizzazione politica (su quei territori si è consumata la frattura tra Tripolitania e Cirenaica, la guerriglia tra le milizie e la mattanza dei migranti in transito dal Continente sub-sahariano). Per la Ue e gli Usa, c’è la perdita di ruolo strategico e di presidio "fisico" di una zona del pianeta che vede specularmente risorgere un doppio sogno imperiale: da una parte quello russo, dall’altra quello ottomano.
Approfittando dell’eclissi italiana in epoca Lega-Stellata, del declino dell’asse Merkel-Macron e dell’America First trumpiano, Putin e Erdogan hanno trasformato il Mediterraneo nel teatro di una inedita, reciproca "volontà di potenza". Mosca ha piazzato i contractor della Wagner e avviato la costruzione del "vallo di Putin" per proteggere a Est i pozzi della "mezzaluna petrolifera" dai raid dei generali ancora fedeli a Sarraj. Ankara ha dislocato le sue truppe scelte e ottenuto in concessione il porto di Misurata. Noi, nel frattempo, abbiamo fatto poco o niente. Niente per difendere il Mare Nostrum dalle influenze esterne delle "democrature" asiatiche illiberali. Niente per supportare la fragilissima tregua libica e l’ancora più fragile governo provvisorio ma unitario di Dbeibah. Niente per far pesare i nostri principi e i nostri interessi in una partita globale nella quale, insieme a Russia e Turchia, giocano potenze intermedie come l’Egitto, gli Emirati, il Qatar, mentre sullo sfondo si ridefiniscono i rapporti e le sfere di influenza tra sunniti e sciiti. La "Pace di Abramo" del 15 settembre 2020, in fondo, è anche e forse soprattutto questo: il tentativo di stabilire la suprema armonia tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti sedendosi al tavolo degli affari, e contrastando così la filiera dello sciismo che parte dal Libano, incrocia la Siria e arriva fino al Grande Iran.
Ecco perché la missione di Draghi è importante. Si salda alla ripresa delle relazioni transatlantiche innescata dalla vittoria di Joe Biden, che dopo i deliri autarchici di Trump punta a rimettere finalmente la "chiesa americana" al centro del villaggio globale. Riflette a sua volta una nuova centralità dell’Italia, impegnata in una collaborazione-competizione con gli alleati europei che insistono sugli stessi terreni, confliggono sugli stessi business, inseguono le stesse concessioni di "Oil and Gas". Non possiamo aspettarci risultati immediati, nel rilancio di un Piano italiano per la ricostruzione politica, istituzionale, economica e sociale della Libia, che permetta il consolidamento del processo democratico e lo svolgimento ordinato delle elezioni del prossimo 24 dicembre. Meno che mai possiamo aspettarci il via libera a un Piano euro-americano per la liberazione del Paese dalle presenze militari straniere, la ripresa dell’industria petrolifera, la repressione dei nuclei residui di terrorismo jihadista, la gestione dei flussi migratori nel pieno rispetto dei diritti umani.
Ci vorrà tempo, perché l’Italia possa tornare a essere tanto forte e credibile da convincere l’America a fidarsi e l’Europa a riprendersi il suo Mare. Arrestare una spia dei russi, e gonfiare il petto di fronte a Washington, non basterà a farci perdonare la sbandata putiniana del primo governo gialloverde, tra cene leghiste al Metropol e brindisi salviniani sull’annessione della Crimea o l’attacco all’Ucraina. Ma almeno questo possiamo riconoscerlo: è un buon inizio, per l’Italietta che finalmente si risveglia dalla sbornia nichilista, sovranista e anti-occidentale di questi ultimi tre anni.