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 2021  aprile 04 Domenica calendario

Intervista a Luciano Ligabue

C’è un’ immagine che, da sola, racchiude perfettamente l’idea, la musica, i sentimenti di Luciano Ligabue oggi, nel pieno del 2021, a 30 anni passati dal suo esordio, in questa fase di bilanci, di riassunti che il cantautore e rocker di Correggio sta attraversando. È nel video di Mi ci pulisco il cuore, singolo uscito poche settimane fa, uno dei brani più belli di 7 , il suo album più recente. Liga è con il suo giubbotto di pelle, in riva a un mare agitato, con i suoi capelli leggermente mossi dal vento, contro il cielo grigio. L’idea che l’immagine trasmette è che il peggio è passato, che la tempesta è finita, che il mare davanti è grande e che guardando oltre le onde qualcosa si può vedere e trovare. Ed è verso i prossimi trent’anni che guarda Ligabue, tutt’altro che pacificato, tutt’altro che pronto riposare sugli allori di una carriera gloriosa che sta celebrando con la pubblicazione di 7 ,
con quella della raccolta 77+7 , che contiene i 77 singoli che hanno fatto la sua storia ora anche in versione vinile, con il libro È andata così , uscito qualche mese fa, e adesso anche con l’uscita mensile in edicola dei suoi album, dal primo all’ultimo.
Il "diavoletto" che gli fa rodere l’anima da sempre, non si è stancato di rodere…«anzi, tutt’altro», dice lui, «è ovvio che io sia soddisfatto di come sono andate le cose, mi sveglio contento di me. Ma il diavoletto è sempre al lavoro, mi spinge a cercare qualcos’altro, mi fa stare sul chi vive, come se dovessi fare ancora chissà cosa e non mi lascia mai in pace».
Mai? Non ha mai avuto un serio ripensamento in questi trent’anni, la voglia di mandare al diavolo tutto?
«Il problema più serio l’ho avuto all’indomani di un periodo in cui le cose andavano fin troppo bene, alla fine degli anni Novanta, il momento in cui traBuon compleanno Elvis , Su e giù per il borgo e Radiofreccia mi era arrivata addosso anche la parte meno piacevole del successo, che mi obbligava a un impegno nuovo.
Dovevo fare i conti con la nuova curiosità della gente nei miei confronti, convivere con un nuovo isolamento che quella curiosità comportava. Mi chiesi davvero se ne valesse la pena, se non fosse stato meglio smettere in quel momento, all’apice, in bellezza, lasciando solo un buon ricordo. Ma decisi che non potevo smettere di fare concerti, e mi rimisi al lavoro».
Quindi fare concerti è rimasto il cuore del suo essere musicista?
«In tutti questi anni il povero Maioli
(il suo manager, ndr ) si è dovuto inventare ogni modo possibile per farmi suonare. Sono sempre ingordo, suono volentieri ovunque, dal piccolo club fino a Campovolo e tutto quello che c’è nel mezzo. In questi trent’anni ho acquisito una forma di dipendenza, sono tossico, non lo nego. Quello che provo sul palco non lo trovo nel mio quotidiano ed è difficile farne a meno. Ho provato in tutti i modi a spiegare cosa provo, ma è difficile, meglio risalire su un palco, come ho già fatto per la bellezza di 850 volte in questa vita».
Un uomo fortunato, no?
«Sì, ma se dico che sono fortunato, con un po’ di scaramanzia, penso di tirarmela, se dico di no sembro un presuntuoso. Posso dire che sono grato al progetto divino di chi ha deciso di farmi vivere questa esperienza e al tempo stesso ha attivato la mia inquietudine. Quella che mi ha spinto a fare tante cose diverse, come se non dovessi farmi scappare niente dalle mani. Quindi canzoni, album concept, romanzi, racconti, poesie, sceneggiature, film, tutto».
E tutto questo l’ha reso quello che voleva essere o un altro?
«Ah, io non posso che essere me stesso. Ma, che ci si creda o no, ho sempre cercato di trovare un suono, un linguaggio, un’idea che fossero mie. In trent’anni è cambiato tutto, ma io sono anche abbastanza maldestro, faccio fatica in un mondo in cui le cose vanno tutte insieme in tante direzioni diverse. Quindi sono me stesso, mi lascio catturare dalla musica».
E quanto è contata la sua vita privata in questi cambiamenti?
«Parto da una famiglia felice, non ho avuto inquietudini particolari, due genitori semplici, che hanno avuto a che fare con la fame del dopoguerra e sono cresciuti andando d’accordo.
Mi sono sposato a trent’anni, ho avuto mio figlio Lenny a 38, sposato tardi e figli tardi, e poi la separazione che da buon ex comunista e ex cattolico mi provoca un discreto tasso di senso di colpa da smaltire. La seconda figlia l’ho avuta a 44 anni, adesso è un’ adolescente con tutto quello che ne consegue. Stanno crescendo tutti e due, Lenny è un buon batterista, vuole fare il produttore musicale e io lo supporto più che posso sapendo che non devo esagerare. L’altra figlia vive con me, le devo dare attenzione più che posso sapendo che devo lasciarle lo spazio perché riesca a trovare la sua strada».
C’è qualcosa che avrebbe voluto
fare e non ha fatto?
«Le faccio una confessione: dopo il terzo Campovolo chiamo Maioli e gli dico che ho un concept di 28 canzoni, Made in Italy . Quindi quello che avete ascoltato è solo la prima parte, ce ne doveva essere una seconda. Per tanti motivi è uscito prima il film che raccontava tutto, non aveva più senso pubblicare il resto. Di fatto, però, è un opera mozza».
E i prossimi trent’anni?
«Siccome, visto quello che è successo, è possibile tutto, credo che alla fine di questa fase ci sarà un’energia enorme e avremo bisogno di far convergere tutte le cose, farle succedere, condividerle, e scoprire che ogni emozione è più forte di come ce la ricordavamo.
Dobbiamo pensare insieme che il futuro sia migliore di come era il nostro passato, per l’ambiente, per il lavoro, per tutti quelli che dovranno fare i conti con le macerie, e che dopo aver dato fondo al nostro istinto di sopravvivenza tireremo fuori anche altro, cercando di riprendere in mano la vita. E voglio pensare che tutto questi passi anche attraverso la musica».