la Repubblica, 4 aprile 2021
In morte di Luca Villoresi
Ci ha lasciati Luca Villoresi. Il prossimo 14 maggio avrebbe compiuto 71 anni. Un amico, un collega, una grande firma di Repubblica. Mi ha avvertito uno dei suoi due figli, Giulia, anche lei scrittrice e giornalista. «Si è accasciato al supermercato», ha scritto.
Non è facile ricordare qualcuno che conosci bene, con cui hai condiviso gran parte della tua storia umana e professionale. Ti vengono in mente centinaia di piccoli e grandi episodi. Aneddoti che hanno costellato quell’incredibile avventura che è stata Repubblica. Il nostro giornale, quello in cui siamo cresciuti, che ci ha formato, che abbiamo contribuito a portare in testa alle classifiche dei quotidiani. Per qualità e ricchezza delle notizie, per l’influenza politica e culturale che esercitavamo, per le scelte dei temi che imponevamo agli altri. Luca riusciva ancora a sorridere, sereno, nonostante il tumore scoperto nel luglio scorso. Era sereno nell’anima e nello spirito. Da qualche anno si dedicava alla sua campagna, a nord di Roma, ai confini tra Lazio e Umbria, dove era riuscito a realizzare un suo vecchio sogno: allestire un grande giardino, coltivare un pezzo di terra, circondarsi del verde che lo rinfrancava.
Ma, nel suo profondo, restava un giornalista. Lo è stato per una vita. Ci siamo conosciuti in Cronaca, la grande fucina dove imparavi il mestiere. Ero alle prime armi, coprivo la notte; lui si occupava di terrorismo. Era già una firma del giornale. Per le sue capacità di scrittura e per il rigore nel verificare le notizie. Ha coperto tutta quella stagione intrisa di sangue e misteri, di trame e di attentati, di golpe e di segreti. Ha raccontato la galassia della lotta armata, gli “anni di piombo”. Ma ha soprattutto svelato i misteri del sequestro Moro, rapito dalle Brigate Rosse il 16 marzo del 1978. È stato lui a sollevare i primi dubbi sul posto dove era tenuto in ostaggio il leader politico della Dc. Aveva le giuste fonti e preziosi contatti, grazie anche alla sua antica militanza nella Fai, la Federazione Anarchica Italiana.
Qualcuno gli suggerì di indagare su una strana casa nel quartiere di Monteverde. In via Montalcini. Solo dopo si sarebbe scoperto che era stata la prigione di Moro. Gli agenti avevano bussato, nessuno aveva risposto e avevano deciso di proseguire nelle ricerche. La mancata perquisizione resta un mistero: uno dei principali in 55 giorni di sequestro. Se la polizia avesse fatto irruzione come faceva sempre, il presidente del Consiglio si sarebbe salvato e il vertice delle Br sbaragliato. Sappiamo come è finita.
Luca andò sul posto. Fece il lavoro da cronista, sul campo, appuntando sul taccuino dettagli, nomi, date, sospetti, incongruenze. Raccontò una verità diversa, lontana dalle versioni ufficiali, piene di depistaggi, che il governo e i Servizi occulti, dominati dalla P2 di Licio Gelli, offrivano a un’Italia impaurita, ricattata, ferita al cuore. Fu uno dei tanti colpi messi a segno da Luca. Il servizio che scrisse era una bomba. Andava verificato. Non venne pubblicato subito. Le conseguenze politiche sarebbero state enormi. Villoresi ne era consapevole ma sapeva anche che forze interne e internazionali lavoravano per inquinare le ricerche e mettere ancora più in difficoltà il paese. Ne soffrì molto, lo spinse a chiudersi, scelse di isolarsi. Era un episodio centrale della sua vita professionale. Aveva ragione, aveva scoperto una verità inconfessabile.
Aveva coraggio ed era ostinato. Un’ostinazione che non gli è stata sempre amica. Gli è costata anche il carcere quando fu l’unico a scoprire le torture inflitte ai brigatisti arrestati per l’altro agguato portato a termine in quegli anni dalle Brigate Rosse: il rapimento del generale della Nato James Lee Dozier. Scrisse ciò che gli raccontava uno dei funzionari di polizia presenti alle torture. Il giudice che aprì l’inchiesta gli chiese di svelare il nome della sua fonte. Luca si rifiutò, appellandosi al segreto professionale. Non ha mai raccontato chi fosse il suo informatore. Non l’ha detto neanche a me.
Era fatto così. Serio e scrupoloso. Ma anche ironico, allegro, colto, romano nei modi e nello spirito. Amava i poeti e i pittori. Si circondava di artisti e di letterati. Ma restava ancorato alla realtà. Fatta di strade e piazze, di quartieri e monumenti. Era pieno di magia, con le sue pietre strane e colorate che raccoglieva un po’ ovunque. Ti spiegava l’energia che sprigionavano. «Ti faranno bene», diceva e te le regalava. Si divertiva ad addobbare splendidi presepi.
Era l’unico a centrare in una frase titoli del giornale impossibili da fare. Uno spirito libero. Da vecchio anarchico, da giornalista, da signore d’altri tempi. Accorto e sensibile. Figlio di Franco Villoresi, pittore tra i più noti e apprezzati del secolo scorso, quando lasciò il giornale smise di scrivere. Una scelta difficile, dolorosa per un giornalista. L’ennesima forma di ribellione a un sistema in cui non si riconosceva più. Non ci è riuscito. Ha ceduto con un libro sul Natale, Purché ci sia la stella, editore Donzelli. La stella che lo ospita adesso. Voglio pensare che sia così.