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 2021  aprile 04 Domenica calendario

L’anticonformista dottrina di Keynes

Pur essendo un feticcio del discorso pubblico a ogni latitudine, e come tale abusato da chi lo cita senza averne letto un rigo, John Maynard Keynes è uno degli intellettuali che hanno plasmato davvero il mondo contemporaneo. Tale rimane anche per chi ha negato l’efficacia della sua analisi e la radicalità delle sue ricette e ha, spesso vanamente, impiegato una vita per smontarne gli assunti. 
Sulla sua biografia, di cui si sa molto grazie al forse insuperabile lavoro di Robert Skidelsky, torna un volume di Zachary Carter, che ricostruisce in modo appassionante e molecolare il contesto umano e sociale in cui operò. In questo senso vanno le pagine che affrontano gli anni successivi alla formazione, quelli dell’immersione nel più brillante circolo dell’epoca: il leggendario Bloomsbury group animato da Virginia Woolf, e di cui facevano parte, fra gli altri, Lytton Strachey, Edward M. Forster, Vanessa e Clive Bell, Bertrand Russell, Roger Fry, Duncan Grant. 
Fu in quella formidabile palestra che si rafforzò la duttilità con cui il futuro Lord Keynes guardò il mondo, e un mondo pacifico rimase per sempre il suo orizzonte e la sua ossessione, staccandosi di dosso le angustie degli Eminent Victorians allora dominanti nell’establishment britannico. Fu in quella temperie culturale che si irrobustirono la sua proverbiale inclinazione a cambiare idea e la sua fiduciosa disposizione nei confronti degli interlocutori. 
Sono qualità che Keynes ebbe occasione di esibire in uno dei tornanti formativi del sistema internazionale del XX secolo: quando, da delegato del Tesoro alla conferenza di Parigi, si espresse contro l’ambizione francese di annientare la Germania sconfitta, seppellendola sotto un inaudito cumulo di riparazioni di guerra. Il graffiante lavoro che trasse da quell’esperienza, Le conseguenze economiche della Pace, non solo lo sbalzò in una dimensione inedita per un civil servant, quella di autore di un bestseller planetario, ma ne mise in evidenza l’acuminato gusto della provocazione acquisito a Cambridge e perfezionato a Gordon Square. E sebbene nel 1919, data della pubblicazione, non potesse essere chiara la lucidità preveggente di quell’invettiva, alcuni passaggi sono sopravvissuti perfino al naufragio del lessico politico contemporaneo. 
Negli anni successivi a quell’exploit, Keynes continuò a essere alieno dal conformismo: dalla vorace bisessualità coltivata prima di sposare Lydia Lopokova, nel 1925, alla sequenza di studi sempre più compiuti sul sistema monetario,trattato come perno qualificante della stabilità internazionale. Carter affronta lo sviluppo della dottrina di Keynes attraverso la complessità della sua vicenda umana, facendo dialogare una serie di documenti eterogenei che si muovono al confine fra la dimensione privata e l’intensa attività pubblica. Con questa chiave l’autore mostra quanto la forza innovativa della dottrina di Keynes sia permeata dalla consapevolezza dei drammi dei suoi anni. E se il legame fra la General Theory e la Depressione è divenuto quasi di senso comune, soffermarsi sulle disastrose conseguenze politiche di ciò che la dottrina economica era prima di Keynes non è qui un esercizio retorico ed è anzi innestato nella traiettoria culturale sulla quale essa si snodò. Quell’analisi che smontava i dogmi e i difetti del laissez-faire era l’anticamera alla creazione di nuovi assetti istituzionali e di interventi diretti e discrezionali dello Stato, e sebbene fu necessario attendere perché venisse accolta, il New Deal prima e la guerra poi offrirono una versione efficace del suo funzionamento.
Gli anni estremi di Keynes coincidono con la fine della guerra e con il suo contributo alla costruzione della sicurezza economica definita all’alba del Secolo americano in quella Bretton Woods che pare oggi il paradiso perduto dove germogliarono i miracoli postbellici. Ma il libro non si arresta qui ed esamina con passo incisivo lo smantellamento della dottrina keynesiana ragionando sulle responsabilità di chi ha dato il contributo maggiore al suo discredito politico. In maniera poco sorprendente eppure talora dimenticata, l’eclissi di quelle ricette si deve a chi gestì la transizione dalla fine della Guerra fredda alla neoliberale economia di pace. 
Per beffa del destino, fu il democratico Clinton a tirare la volata a quella infeconda terza via in cui si affollarono molti leader sbiaditamente socialdemocratici che imbracciarono il vessillo di una liberalizzazione forsennata. Gli anni più vicini e il susseguirsi di varie crisi che da sotterranee sono divenute palesi, si sono incaricati di far rientrare dalla porta principale le idee di colui da cui ci si era accomiatati per la porta di servizio, e così, con insistenza, oggi si invoca il “ritorno del Maestro” scomparso il giorno di Pasqua di 75 anni fa, e leggendo un libro accessibile e intelligente come questo se ne capiscono bene le ragioni.