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 2021  aprile 03 Sabato calendario

Le lettere di Virginia Woolf

“Lei che non credeva in nessuna specie di immortalità non poté fare a meno di sentire che la sua anima sarebbe andata e tornata in eterno” scriveva in Orlando, opera ispirata dall’intimità con la poetessa Vita Sackville-West. Immortale, Virginia Woolf, lo è diventata. Quando decise di andarsene aveva 59 anni, era il 28 marzo del ’41, scrisse una struggente lettera al marito Leonard, la posò sulla mensola del camino di Monk’s House, residenza di campagna nel Sussex e ultima dimora dopo che il loro ottavo nido londinese fu bombardato nel ’40, si diresse verso il fiume Ouse, meta di molte passeggiate, riempì le tasche di sassi e si lasciò annegare.
Sulla scrivania aveva lasciato il manoscritto del romanzo Fra un atto e l’altro, in cui incombe un senso di fine e smarrimento, stato intimo ma anche riflesso di un momento storicamente drammatico, uscito postumo dopo successi come La stanza di Giacobbe, La signora Dalloway, Al faro, che l’hanno consacrata icona del flusso di coscienza al pari di Joyce.
Ipersensibile, da sempre minata da una specie di disturbo bipolare, trovava conforto nella scrittura, a cui si dedicava due ore e mezza al giorno, che fu sempre un volgersi dentro, “era arrivata a pensare che quello che si sente è l’unica cosa che valeva la pena di dire”, si legge ne La signora Dalloway. “Non ho mai conosciuto nessuno che amasse tanto scrivere”, disse l’amico Edward Forster e in effetti Virginia scrisse sin da piccola, fu da giovane giornalista su temi disparati, dalla moda agli animali, dalle guerre ai diritti delle donne, pubblicò saggi, romanzi, racconti, diari e lettere.
Guizzanti e stranamente poco malinconiche quelle tra lei e il biografo Lytton Strachey che Woolf meditò anche di sposare perché lo vedeva come un fratello (era omosessuale) e con lui avrebbe potuto evitare la temuta intimità. La tentata violenza quando aveva sei anni da parte del fratellastro George la traumatizzò ed ebbe sempre un cattivo rapporto col proprio corpo che riteneva mostruoso. Sposò invece l’intellettuale Leonard Woolf, che le rimase nottetempo vicino e le regalò nel 1917 un torchio tipografico cosicché potesse stampare i suoi scritti in autonomia. Da quel dono nacque l’editrice Hogarth Press che pubblicò penne come T.S. Eliot, Freud (quando s’incontrano per la prima volta lui le regala un narciso), Italo Svevo, Katherine Mansfield, per cui Virginia non nutre immediata simpatia, lo si evince dallo scambio con Strachey, ma va detto che ebbe da ridire pure su Henry James nei cui lavori non vedeva che “acqua di rose blandamente colorata, mondana e setosa ma grossolana”.
In perenne lotta contro depressione, emicrania e allucinazioni, Woolf non ebbe vita semplice. “Ognuno ha il proprio passato chiuso dentro di sé come le pagine di un libro imparato a memoria e di cui gli amici possono solo leggere il titolo” scrisse. Provata prima dalla morte della madre quando è ragazzina, poi da quella del padre, della sorellastra Stella e ancora del fratello Tobhy, quando stava bene si rivelava però socievole, amante del dibattito culturale (fu anima del circolo intellettuale Bloomsbury), attenta ai diritti delle donne in una società vittoriana di stampo patriarcale. Lei, che con la sorella Vanessa era stata istruita in casa perché femmina, considerava vitale per ogni donna essere economicamente indipendente e avere una stanza tutta per sé. “Non c’è cancello, nessuna serratura, nessun bullone che potete regolare sulla libertà della mia mente” scrisse e si augurava fosse così per tutte.
Ipersensibile fu sempre tesa a cogliere il senso della vita. In Al faro la pittrice Lily si domanda quale sia. “La grande rivelazione non era mai arrivata. La grande rivelazione forse non arriverà mai. C’erano invece piccoli miracoli quotidiani, illuminazioni, fiammiferi accesi inaspettatamente nel buio”. Ecco, la vita per Virginia stava negli attimi, anche in una chiocciola che si fa strada in un prato come nel racconto Kew Gardens: la vita “non è una serie di lampioncini disposti simmetricamente, è un alone luminoso, un involucro semitrasparente che ci racchiude dall’alba della coscienza fino alla fine”.