Corriere della Sera, 3 aprile 2021
Hermès, non solo Kelly e Birkin
Neppure un amore lo si aspetta più per due anni, senza vederlo, sentirlo, sfiorarlo. Ma una Kelly, una Birkin, una Costance o altre fra le «ragazze» di Hermès, sì. Se la moda è famosa per la sua impazienza e la voracità, non ci sono «storie di attesa» più incredibili di quelle leggendarie nella narrazione questo brand. Racconti dei racconti che si tramandano e si rinnovano sin da quando nel 1837, Thierry Hermès, sellaio parigino, aprì una bottega di briglie e bardature che divenne subito famosa per le sue lussuose finiture da cavallo.
Tempi artigiani, ma i clienti aspettavano, già allora, proprio per questo. Poi vennero le borse e la sede, che ancora è, in Faubourg Saint Honoré e gli eredi Dumas e quelle clienti famose che ne scrissero tanta storia: Grace Kelly e Jane Birkin, giustappunto, alle quali sono dedicate (la principessa perché la indossava sempre, l’attrice perché fu realizzata proprio per lei) due fra le borse del desiderio di generazioni e generazioni, sino alla Z che, come le loro mamme prima, si mettono buone-buone in lista d’attesa per averle, le «mini» sopratutto.
Possibile tanta pazienza? È di riti e rituali che si tratta. A cominciare dal momento in cui si entra in una boutique. C’è un baule magico dove tutto ha inizio: una tirella di colori infinita (più di duemila nuance) e ogni gradazione ha un nome (Rouge de Coeur, Rose Mexico o Blu Frida) e poi una data (escono due tinte l’anno) e una lavorazione; ci sono i diversi filati per le cuciture e la metalleria (sempre da scegliere). Una volta deciso pellame, colore, finiture sembra fatta, ma non è così. «Non è detto che ci siano, già», racconta l’amministratore delegato di Hermès Italia e Grecia Francesca di Carrobbio. Perché l’ordine parte e arriva in uno dei venti atelier di artigiani che la maison ha in Francia: «Le pelli passano controlli di qualità, in pregiatezza e colore, rigorosi e spesso succede che non si trovi quella giusta ordinata, possono passare anche mesi: loro non rinunciano mai alla qualità». E addirittura anni se in più ordini (magari in diverse parti del mondo) hanno fatto una richiesta identica.
L’organizzione negli atelier è quanto di più «tradizionale» si possa immaginare, dalla formazione (scuole ad hoc quindi anche reclutamento e investimento) all’organizzazione (nel tempo la maison ha aperto gli atelier, con massimo 150 persone, con progetti di recupero dei territori unici) al lavoro stesso (utensili, sempre gli stessi, che si tramandano): «Ogni borsa è lavorata da un solo artigiano che alla fine la firma con un codice. Ci vogliono 17 ore, cioè due giorni pieni per realizzarla dal momento in cui arriva il kit dal controllo con la pelle scelta e tutte le finiture». Ed ecco che fra il desiderio e il possesso (solo il 10% delle richieste), c’è il tempo. Poi il culto che arriva al collezionismo e al vintage: un pezzo (introvabile) in boutique a 6 mila euro, può arrivare a 15 mila nel second hand. Così per tutte: dalla Kelly alla Bolide, alla Birkin, alla Éveline. Stessi rituali, perpetrati di decennio in decennio, dal 1937, anno di nascita della borsa preferita da Grace di Monaco, per trovare la «Kelly di domani».
«Un’altra magia creativa che riesce: pensiamo alla Costance o alla Evelyne, per esempio», riflette l’ad italiana. Ogni nuovo modello è studiato da uno «studiò» che, insieme agli artigiani, mette a punto progetto e fattibilità. Ci sono voluti un paio di anni, per esempio, per arrivare alla «Sac della Cavalleria», l’ultima nata, con la sua chiusura-morso così particolare. Due anni di attesa anche per una novità? «Dico solo che per il mercato italiano, tutto, ne sono arrivate dieci...», conferma Francesca di Carrobbio. Poi ci sono fenomeni come la «Sac Picotin», realizzata qualche anno fa in formato over, ora aggiornata in mini (e dunque a un costo notevolmente più limitato, poco più di 2 mila euro) che ha cominciato a decollare. Ma sempre che non la si voglia in colori e finiture particolari perché allora il rito ha inizio. Prossima «dopo Kelly»? La «Sac Victoria» in Sylvania, un materiale biotecnologico ricavato dal micelio dei funghi, e la leggenda continua.