Corriere della Sera, 3 aprile 2021
Etiopia, 150 massacri per un Nobel
«Le immagini che più mi hanno colpito – racconta Giancarlo Fiorella al Corriere — sono quelle degli uomini che camminano verso la morte, verso il dirupo dove i soldati etiopici getteranno i loro cadaveri, e il profilo delle montagne intorno. Se ci sono le montagne, è più facile risalire al luogo di un massacro». Venezuelano, il papà Raffaele nato vicino a Frosinone, Fiorella è il ricercatore di Bellingcat che dall’università di Toronto, smanettando con Google Earth Pro e PeakVisor, ha contribuito ad «autenticare» i video dell’ultimo massacro che affiora dal Tigray, uno dei 150 compiuti negli ultimi quattro mesi in quella parte martoriata di Etiopia.
Il 4 novembre 2020 Abiy Ahmed, premio Nobel 2019 per la pace firmata con l’Eritrea, dava inizio all’offensiva contro la provincia ribelle abitata da 6 milioni di persone. Il 28 novembre il premier annunciava la fine della guerra con la presa di Macallè e dichiarava: «Nessun civile è stato ucciso». Nelle stesse ore ad Axum, culla del cristianesimo etiope, centinaia di civili disarmati venivano massacrati nelle strade e casa per casa dalle forze eritree del dittatore Isaias Afewerki alleate di Addis Abeba, «i loro corpi lasciati in pasto alle iene», ha raccontato un sacerdote della Chiesa di Santa Maria di Sion: nessuno poteva seppellirli, perché chi si avvicinava veniva colpito.
Quella di Axum è solo una delle 150 stragi (con più di 5 vittime) di un elenco che si è andato ingrossando giorno per giorno, anche se «in differita», perché l’Etiopia ha spento Internet e tenuto fuori i media dal Tigray. Un elenco «cucito» insieme da un gruppo di lavoro dell’università di Gand, in Belgio, guidato dal geografo Jan Nyssen che ha vissuto per decenni in quella regione. L’«Atlante umanitario del Tigray» (frutto di oltre 500 interviste e di una impressionante raccolta dati) esce con un’appendice su Twitter dove vengono nominate, una per una, le oltre 1.900 vittime finora identificate. Ogni età è rappresentata, dai bambini ai novantenni. Migliaia di morti non hanno ancora un nome. Per la strage di fine novembre ad Axum, Amnesty International ha raccolto le testimonianze di 41 sopravvissuti. I quindici uomini gettati ancora caldi da una scarpata forse non avranno mai sepoltura: i ricercatori di Belling Cat e Bbc Africa Eye hanno impiegato meno di due settimane per trovare i riscontri topografici che confermano le prime voci arrivate dalle famiglie di Mahbere Dego, tra il capoluogo Macallè e Adua, dove 73 uomini erano stati portati via a gennaio dalle forze di sicurezza. Una strage in cinque video, tutti girati «orgogliosamente» dai soldati stessi. Lo sottolinea Giancarlo Fiorella, ricordando che a un certo punto uno degli aguzzini invita chi sta riprendendo le immagini ad «andare più vicino»: «Come possiamo non registrare il modo in cui muoiono?».
Come possiamo noi dimenticarlo? I quindici giovani uomini hanno camminato per un chilometro verso il luogo dell’esecuzione, con il sole basso all’orizzonte che disegnava sul terreno le loro lunghe ombre. Vite brevi: i soldati sparano a bruciapelo, parlando in amarico (non in tigrino) si fanno i complimenti a vicenda prima di gettare i corpi dal dirupo nella macchia sottostante. Così muoiono i «woyane», termine dispregiativo che sta per ribelli. Erano sospettati di appartenere al Tplf, Fronte Popolare di Liberazione del Tigray, il gruppo che ha governato la regione e fino al 2018 – spesso con il pugno di ferro – l’intera Etiopia. Fino all’avvento di Abiy, che per disfarsi dei nemici (il nerbo dell’esercito) è ricorso all’ex arci-nemico Afewerki. Sembra ormai chiaro, dice al Corriere Uoldelul Chelati Dirar, docente di storia dell’Africa all’università di Macerata, che la pace fatta in corsa con l’Eritrea avesse come vero obiettivo quello di trovarsi un alleato per la resa dei conti in Tigray.
Domani sono 4 mesi dall’inizio del conflitto. Gli eritrei controllano il Nord, gli etiopici le città, il Tplf è forte nelle zone rurali, sulle montagne. Una situazione «afghana», dice Chelati Dirar, che sul piano militare potrebbe durare anni. A rimetterci è la popolazione civile. Vittime, distruzioni, saccheggi. Almeno un milione di sfollati. Ci sono cittadini italiani che hanno famiglia in Tigray. Alcuni si trovavano là quando scuole, ospedali, monasteri venivano bombardati. Al Corriere fanno sapere che non possono parlarne, perché temono rappresaglie sui loro parenti. Nell’Ovest intanto, tra i campi di sesamo e cotone che nessuno ha seminato, si consuma un nuovo esodo: migliaia di tigrini cacciati dalle loro case dalle milizie Amhara. «Pulizia etnica», denuncia Washington. Addis Abeba nega e promette: chi si è macchiato di crimini sarà processato. Ma il premier Abiy Ahmed ha perso la sua credibilità. Un giorno gli strapperanno il Nobel per la pace, così come un chirurgo di Macallè ha strappato il braccio destro in cancrena a una ragazza diciottenne. Monna Lisa si chiama: un omaggio all’Italia di Leonardo, che fabbrica armi per il governo etiopico. Un soldato un giorno è entrato nella sua casa. Ha intimato al nonno della ragazza di fare sesso con lei. Il rifiuto, la resistenza, gli spari. Monna Lisa è rimasta con sette ferite e un braccio maciullato. È convalescente all’ospedale di Macallè, è il volto di un popolo che chiede giustizia e memoria. Un funzionario dell’Onu l’altro giorno ha detto al Consiglio di Sicurezza che almeno 500 donne in Tigray sono state violentate. Monna Lisa ha perso il braccio. C’è chi, se non ancora il Nobel, ha perso la dignità.