Tuttolibri, 3 aprile 2021
Riscoprire “Gli spostati” di Arthur Miller
Quando Roslyn arriva a Reno, capitale mondiale dei divorzi, non ha programmi per il futuro. Vuole solo separarsi dal marito. Ma in quelle pianure infinite che profumano di salvia, la vita è capricciosa come i rulli delle slot machine che fiancheggiano le strade. Obbedendo al cuore che l’ha sempre fregata si unisce a un trio di «spostati», renitenti al grande balzo modernista dell’America anni 60, uscita dalla guerra (semi)padrona del mondo, sicura che il capitalismo operoso sia la chiave per il paradiso dei consumi e della felicità. La beatitudine, per loro, è invece la flânerie del cowboy, «ti alzi quando ne hai voglia, ti dai una grattata, ti friggi un paio d’uova, guardi un po’ che tempo fa, tiri sassi a un barattolo, cavalchi un cavallo, vai a trovare qualcuno, fischietti…». Comincia così Gli spostati il meraviglioso epos selvaggio che Arthur Miller scrisse nel ’57 per sua moglie Marilyn Monroe e che John Houston nel ’61 tradusse fedelmente in un film altrettanto meraviglioso. Non è un romanzo, non è una sceneggiatura, è un esempio di quella scrittura ibrida che il drammaturgo credeva consustanziale all’era del cinema, capace di avere l’immediatezza dell’immagine e le possibilità riflessive della parola scritta. Ed è sicuramente il più riuscito e commovente tentativo di dare un’anima a Marilyn, che fino allora era sempre stata soltanto un corpo. Il film, un luminoso bianco-nero accanto a Clark Gable, fu il più bello della sua carriera. Esaltò il suo lato vulnerabile, drammatico. Durante le riprese si fermò un mese per disintossicarsi. L’anno dopo morì di barbiturici.
Roslyn è Marilyn, non solo perché è biondo platino e ha una taglia 12 (l’ottimo Nicola Manuppelli forse avrebbe fatto meglio a tradurlo in una più italiana ed esplicita «48» ), ma perché è un personaggio femminile di umanissima complessità. Romantica, sensibile, fragile, generosamente scriteriata, malinconica. Determinata a stare accanto al maschio che risponde ai suoi desideri, «altrimenti meglio sola». Insomma diversa, come lo era Marilyn, da ciò che l’apparenza mostrava.(«Sei la donna più triste che abbia mai conosciuto» «Sei il primo uomo che me lo dice, in genere gli uomini mi trovano allegra»). Del suo passato si sa solo che ballava nuda nei night e che vuole lasciare con onestà il marito. Quando l’avvocato le consegna il frasario da imparare a memoria per recitare di fronte al giudice la formula standard che il coniuge era «persistentemente» violento, lei con candore preferisce dire che il vero problema era la sua assenza («c’era fisicamente ma era come se non ci fosse»). Commenta la sua amica, «Se quello fosse motivo di divorzio negli Stati Uniti sarebbero rimaste sposate al massimo una dozzina di coppie», sfatando il mito del Paese che si fondava sull’immagine della happy family munita di casa e auto, cereali a colazione, moglie cotonata che accudisce il marito e dal marito viene ripagata con elettrodomestici, pargoli biondi, prato del giardino tosato la domenica.
Appena tolta la fede nuziale, Roslyn incontra Gay, un cowboy di 49 anni, con le nocche grandi, disilluso, e soprattutto randagio. La sua casa sono le sue scarpe, i jeans, la camicia che porta. Ovvero, il fiero discendente del sogno americano della grande frontiera. Che quel sogno fosse costruito sull’olocausto indiano, ovviamente, è taciuto. I poveri nativi sopravvissuti che appaiono nel romanzo sono patetici relitti sonnacchiosi, e se un’auto di bianchi li sfiora troppo veloce si buttano a terra spaventati e possono solo rialzarsi con sconfitta dignità.
Tra Roslyn e Gay, è subito attrazione. E sesso. (Nella Hollywood puritana di solito ci voleva tempo e una promessa di matrimonio per finire a letto insieme). Sono due cuori selvaggi, bisognosi d’amore nonostante le delusioni. Desiderano Roslyn anche i due amici di Gay, che se la mangiano con occhi concupiscenti, pronti a scordare i doveri della solidarietà virile; Guido, vedovo, meccanico, ex pilota di aerei che ha massacrato popoli dall’alto con indifferenza («gettare una bomba è come dire una bugia, rende tutto così tranquillo. Dopo un po’, non senti più niente, non vedi più niente»); e Perce, ragazzone che passa da un rodeo all’altro dormendo dove capita e cercando di stare a cavalcioni di tori imbizzarriti (Montgomery Clift nel film). Vagabondano tutti e quattro sotto i cieli sterminati dell’America rurale, cosparsa di macchine sgangherate, saloon, scazzottate, juke box.
Il banco di prova più duro è la «caccia» a un branco di cavalli avvistati tra le montagne. Il duello uomo-natura, notti sotto le stelle accanto al fuoco, sorsate di whisky: l’avventura che Gay propone ha il sapore della libertà sconfinata, quella che permette ai cowboy di non chinarsi al giogo del padrone. Ma la spietata sincerità di Roslyn squarcia il velo.
I mustang devono essere venduti ai mercanti e diventare cibo per cani e gatti in scatolette: sei animali, a sei centesimi la libbra, fanno tra i venti e i quaranta dollari a testa. Davvero la libertà indomita dei cavalli può essere svenduta per un pugno così misero di danari? La caccia si trasforma in un drammatico esame di verità. Nessuno nel silenzio assoluto del Nevada rotto solo dai nitriti delle bestie impazzite potrà più mentire.
«Come fai al buio a ritrovare la strada?», chiede nel finale Roslyn stringendosi a Gay. Lui risponde, «è facile basta tenere d’occhio quella stella, la strada è sotto la stella e ci porterà dritti a casa». Gli Spostati, letto alla luce del matrimonio Miller-Marilyn, ha una sfumatura struggente in più. Lui scrisse la storia appena sposati, quattro anni dopo, uscito il film, divorziarono. E’ chiaro che quella stella pilota la persero. Ma le lacrime, gli abbracci, le paure, i litigi, il disperato bisogno di amore che i due personaggi si confessano, sono probabilmente lo specchio del loro tormentoso ménage. Come non pensare che in quel cowboy disincantato, capace di usare i muscoli per domare stalloni e di chiedere scusa, Arthur Miller non proiettasse un po’ se stesso? Il problema è che riuscì a dirlo alla sua Marilyn solo con le belle parole della scrittura e non con la prova concreta della vita quotidiana.