Tuttolibri, 3 aprile 2021
Tradurre Baudelaire
Quando si comincia a scrivere un libro? Un anno prima? Tre anni prima? Cinque anni prima? Tu mi chiedi il diario di scrittura di Baudelaire è vivo, caro Ventavoli, e io non so bene da dove cominciare. Forse sul finire degli anni Settanta? Allora, alla ricerca di me stesso, frequentavo una radio libera dove si ammucchiavano copie per me illeggibili di Lotta continua, un luogo dove, in mezzo a slogan idioti, ce n’erano due che mi colpivano: «Io sono mia» e «Lavorare tutti lavorare meno», e dove, più di tutto, il caso mi faceva incontrare ragazzi fraterni e ragazze belle, pazze e affascinanti. E con quei pochi, in quella radio, infliggevamo a esterrefatti ascoltatori letture di Ubu incatenato e delle più assurde poesie di Jarry, brani di Cage con commenti dissennati, e dementi e irrisolvibili quiz per i quali promettevamo premi enormi. Allora, nemmeno ventenni, giravamo con Charlie Mingus a tutto volume in auto con amici e amiche folli, avvolti nelle nuvole di fumo dell’inverno e di Dio sa cos’altro; allora mi arrivavano in casa ragazze che si avventavano su un pianoforte scordato, attaccavano l’Appassionata di Beethoven e recitavano versi di Blok; e si parlava a lungo con gente come Accardo alle prove aperte di musica da camera a Villa Pignatelli, e ci si pigiava in teatrini sotterranei da venti posti nei vicoli di Napoli, dove si proiettavano i film surrealisti di Dalì e Bunuel e nascevano i Neiwiller, i Martone e i Servillo. Allora, nel corso di una settimana, leggemmo e commentammo a voce alta tutto Così parlò Zaratustra, mentre intanto, da solo, sprofondavo nel gorgo di Finzioni, dei Manoscritti economico-filosofici del 1844 e del Tantaloka ovvero Luce dei Tantra di Abhinavagupta. Da adolescente avevo letto Baudelaire sentendolo lontano e difficile: amavo i ragazzini terribili Rimbaud e Lautréamont. Ma alcune frasi mi ossessionavano, come il verso di una poesia dei Fiori del male: «San Pietro ha rinnegato Gesù… ha fatto bene!», un verso che, in un viaggio a Parigi, in giro per una orrenda periferia alla ricerca della casa di Céline, io e un aspirante filosofo tentammo di spremere fino all’inverosimile. Che mai voleva dire? Ma allora ero ignorante, e non sapevo che quel verso era il frutto del Baudelaire rivoluzionario nel 1848 e dopo travolto dalla sconfitta.
Fu allora che cominciai a scrivere questo libro? Allora tradussi e ritradussi una poesia che si intitola Il Viaggio, e lo feci con rime, endecasillabi e martelliani: con risultati orrendi. Allora mi ubriacava il ritmo sincopato e travolgente del Céline di Morte a credito, di Rigodon e del Ponte di Londra tradotto da Celati. Cosa c’entravano con il linguaggio bruciante di Céline i versi dei Fiori del male, le virgole e i punti esclamativi e i trattini che sembravano rallentare il ritmo, e l’armamentario di giarrettiere e cadaveri? Avevo la sensazione che mi sfuggisse qualcosa di essenziale, che viveva in quelle poesie ma che affiorava con difficoltà. Ma intanto le parole di Baudelaire agivano: «Amante delle amanti, madre dei ricordi… Ci siamo detti cose che non possono morire… Tu conosci la carezza che fa rivivere i morti… Le parole resuscitano rivestite di carne e di ossa…». E agiva la magia liberatoria del mundus muliebris, il mondo femminile che lui evocava come il regno in cui infanzia e poesia si uniscono: agiva la musica di carezze estenuanti, di passanti dallo sguardo tempestoso e di sensi risvegliati in ogni luogo del corpo e della mente. E agiva lo Spleen che sentivo addosso come un coperchio, e le apparizioni di cospiratori, di straccivendoli e di ubriachi che sognavano di dettare leggi ai potenti, e il Gesù esaltato perché aveva frustato i mercanti ma poi condannato perché si era arreso: «San Pietro ha rinnegato Gesù… ha fatto bene!».
Quando si comincia davvero a scrivere un libro? Chi scrive sa che ci si alza di notte come colpiti da una scossa, si corre ad appuntare una frase o un’immagine che sembra essenziale, e che al mattino quelle frasi essenziali appaiono povere e estranee. E poi si torna a vedere frammenti e spezzoni confusi, e personaggi che parlano e litigano, e sembra di avere dentro una sorta di lava che deve solo uscire e prendere una forma. Sembra tempo di cominciare: e vai, ti siedi e attacchi a scrivere. Ma il piccolo miracolo non accade. Devi rimandare, o fuggire e andare per vie traverse, le più lontane possibili dalle apparizioni che pensavi di aver capito. Nei primissimi anni Ottanta restavo intere mattinate a guardare le televisioni commerciali imbottite di pubblicità affascinato e terrorizzato, con la sensazione che si stesse preparando un mondo completamente nuovo: un nuovo che però non era il nouveau invocato da Baudelaire alla fine dei Fiori del male, ma l’eterno ripetersi dell’ingiustizia sotto nuovi travestimenti. Avevo la sensazione che quei programmi dove il pubblico sembrava ridente, drogato e asservito, mi parlassero meglio di qualsiasi libro di ciò che mi accadeva intorno, di quale fosse il miserabile nuovo che ci aspettava. Così, dopo tante vie traverse, scrissi alcuni romanzi, afferrato dalla febbre in cui tutto è immaginario ma tutto è vero, e puoi restare sconvolto dalla morte di un personaggio che dovrebbe essere solo parole ma che per te è diventato reale. E leggevo Baudelaire sempre di più, e mi entrava dentro quella prosa esatta e pensante, capace di fiorire improvvisa nella tenebra e nel velluto dei Paradisi artificiali; e leggevo il suo terribile e grandioso epistolario e le sue traduzioni da Poe, abbagliato da quella rimodulazione profonda di un mondo linguistico e interiore «americano» in un mondo completamente europeo; e, nei primi anni Novanta, cominciai una lunga serie di letture critiche perché con Giovanni Raboni dovevamo «ritoccare» un Meridiano Baudelaire già esistente. Un ritocco che però, come complici che si capiscono al volo, trasformammo in un totale rifacimento, un lavoro che durò anni e per il quale lessi, con assurda pazienza e rare eccitazioni, molti studi: e soprattutto tradussi molta di quella prosa che adoravo. Infine, ormai nel 2007, scrissi su Baudelaire una specie di «biografia-saggio», o qualcosa del genere, e pensai che il debito più che trentennale con quell’ombra, che era diventata ormai un fraterno nume tutelare, era infine saldato. E passai ad altro.
Eravamo entrati già da un decennio negli anni in cui la Nube e la Rete erano onnipresenti, e in cui mi pareva arrivare all’estremo l’ipnosi dello spettacolo che avevo visto con terrore e stupore nei programmi televisivi tra il 1979 e il 1982. Erano gli anni in cui, nella fanfara della rivoluzione digitale, parole come popolo, democrazia, progresso, libertà, femminile, venivano evirate del loro reale significato e trasformate in balocchi mediatici. E senza davvero volerlo – e del resto quand’è che in cose d’arte si realizza davvero ciò che si vuole? – cominciai a scrivere Lettori selvaggi: come un mondo parallelo in cui entrare per non essere avvelenato dal presente. Finché, traducendo parola per parola alcune poesie di Baudelaire per una lezione a degli studenti, non mi venne all’improvviso davanti il sogno che mi aveva seguito per decenni: e tradussi tutte le poesie di Baudelaire. Finita la traduzione, sicuro che bisognasse abbandonare il «poetichese» e seguire unicamente Baudelaire, mi accorsi che avevo solo cominciato. Volevo accompagnare il lettore dentro quei versi che ancora erano «velati» da troppi pregiudizi. Bisognava costruire un libro che non avevo visto da nessuna parte, dove dopo ogni poesia ci fossero suggestioni, commenti e racconti che aiutassero a leggere dietro la superficie, che potenziassero occhi e orecchie dei lettori: per lasciare che poi ognuno corresse la sua avventura. E Baudelaire è vivo diventò un titolo con un’eco: «Baudelaire è vivo, e noi?». Sentivo che era tempo, per me e per chi sopravvive in questo lacerato oggi, di far vivere il Baudelaire tenuto nascosto sotto i panni del dandy e del reazionario; il Baudelaire a un tratto vicino a noi più che mai, che era salito sulle barricate nel 1848 e che dopo il colpo di stato e la resa del popolo si era definito «depoliticizzato», e aveva scritto ciò che forse potremmo o dovremmo scrivere noi: «Di fronte alla storia la grande gloria di Napoleone III sarà stata quella di provare che il primo venuto può, impadronendosi del telegrafo e della Stampa nazionale, governare una grande nazione. Imbecilli sono quelli che credono che simili cose possano riuscire senza il permesso del popolo…». Era tempo di far vivere il Charles che aveva convissuto vent’anni con Jeanne, la donna di colore che tutti chiamavano volgarmente «la négresse» o «la mulâtresse", Jeanne che è l’anima dei Fiori del male: era tempo per il Baudelaire che ospitava dentro di sé tutte le contraddizioni, ma che aveva gridato di volere «la vita in bellezza!» non solo per sé ma per tutti. E insomma, caro Ventavoli, a volte i libri vengono da lontano. Dove vanno? Per me, sempre nella vita che a loro regalano quelli che li leggono con amore.