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 2021  aprile 03 Sabato calendario

Rumaan Alam e la felicità familiare

Si definisce uno scrittore brown con due figli black e un marito white. E si considerava anche americanissimo finché a una festa in casa dell’ex capo, la madre di questo lo ha scambiato per l’autista. Da quel momento Rumaan Alam ha capito che l’integrazione è una cosa più difficile di quanto potessero sperare i suoi genitori emigrati negli anni Settanta dal Bangladesh a Washington e diventati due professionisti - medico e architetto - ricchi e stimati. I figli li hanno tirati su a cereali e cartoons, niente moschea né rimpatriate fra bengalesi all’estero. Ma evidentemente non basta e anche se lui si è sempre sentito come gli altri ha dovuto fare i conti con il colore della pelle. Pure quando, ottenuto il lavoro dei suoi sogni alla New York Times Book Review gli è venuto il sospetto di essere stato preso in quota diversity. Di queste cose e anche di sé parla nei romanzi, però sempre elegante e spiritoso, si vede che ha lavorato nell’editoria di moda e in pubblicità. Ha scritto Rich & pretty, That kind of mother e collabora con New York Times, New Yorker, Wall Street Journal. Questo nuovo libro è diventato un caso editoriale, finalista al National Book Award e best seller del New York Times oltre che titolo dell’anno per Time, Washington Post e New Yorker. E fra poco lo vedremo in film per Netflix, regista Sam Esmail, protagonisti Denzel Washington e Julia Roberts.
È stato definito "disaster novel" senza "disaster", thriller, distopia, romanzo di costume, satira. Cos’è?
«Tutto quel che ha detto c’è, ma sta ai lettori definirlo, e pure all’editore, ai librai, ai bibliotecari… il libro è interessato a tutte queste forme e mostra che sono legate più strettamente di quanto crediamo. Noi separiamo i generi ma loro sono uniti».
È anche politico? Il Pulitzer Viet Thanh Nguyen dice che gli scrittori americani che provengono da scuole di scrittura creativa non parlano di politica, le scuole stesse sconsigliano di farlo.
«Molto interessante. Io non vengo da una scuola di scrittura ma credo abbia ragione sul fatto che gli scrittori americani rifuggono dalla politica, e questa è in sé una posizione politica: ignorarla. Nel mio libro però c’è una coscienza politica, in ogni caso volevo scrivere di idee che sono politiche in questa cultura».
Il suo libro tratta molti temi: razza, classe, famiglia, cambiamento climatico, dipendenza dalla tecnologia. Sono tutti sullo stesso livello o ce ne è uno più forte?
«Non sono allo stesso livello ma tutti interagiscono e si intersecano. Mentre pianificavo il libro pensavo che avrebbe parlato specificamente del clima, che l’essere intrappolati in una casa fosse una metafora di come lo siamo sul pianeta, che è solo una casa più grande. Ma tutto è cambiato con il coronavirus, un problema di salute pubblica che porta nuova attenzione su altri temi come la razza e - in questo Paese - un’assicurazione sanitaria non per tutti; rafforza tante altre questioni e io credo che tutto sia collegato e se ne debba parlare».
Il clima: l’incipit è sarcastico. "Il sole risplendeva. lo presero come un segno propizio - la gente trasforma qualsiasi cosa in un presagio". Ma poi, a veri segnali di avvertimento che le cose potrebbero andare storte non prestiamo attenzione. Siamo solo superstiziosi?
«No, fingiamo di non sapere, voglio dire che pensarci fa paura, ci si può impazzire e del resto c’è molto poco che l’individuo possa fare, così distogliamo lo sguardo da ciò che ci spaventa».
Moda, big tech, auto, tutti i settori produttivi si sforzano di andare verso la sostenibilità e il famoso cambiamento. Per lei - che conosce il mondo della comunicazione e della pubblicità - è solo greenwashing o c’è una vera sensibilità?
«Penso sia solo questione di mancanza di istruzione il fatto che uno non capisca la relazione fra le sue scelte individuali di consumatore e la salute del pianeta o dello stato o della comunità, e parte della ragione è che chi scrive pubblicità (come me) lo fa per indurti a pensare che ogni tua scelta è ok, è ok comprare plastica e quel che vuoi. Credo che molti vogliano essere buoni amministratori del pianeta, ma non sanno bene come. E qui negli Usa abbiamo ancora forze politiche molto potenti che parlano di scienza come se fosse qualcosa a cui puoi scegliere di credere o no, come fosse un fatto religioso, così è complicato».
Il razzismo. È tutto nel non detto, nel pensato. Se il libro fosse un fumetto sarebbe nelle nuvolette. Ad Amanda "non sembrava il genere di casa dove vivono dei neri", e poi "Quella gente non sembrava potesse essere proprietaria di una casa così bella. Al massimo potevano pulirla". E il marito dirà che i neri gli "sembrano tutti uguali". Ma anche Ruth e George agiscono secondo stereotipi: lei vede negli ospiti un’espressione da "Indovina chi viene a cena?" e lui sente di doversi comportare come il vicino nero simpatico delle sitcom. È questa la situazione a New York?
«Avere dei figli black - che è cosa molto diversa in questo Paese dall’essere brown come me, essere neri comporta un insieme molto specifico di circostanze - mi ha fatto sintonizzare con quel che dovranno portarsi dietro per il resto delle loro vite e così l’ho osservato con maggiore attenzione. È vero che certe cose sono nelle nuvolette sopra le teste, è vero che ci sono un sacco di cose che non diciamo ad alta voce ma che crediamo così profondamente che danno forma a così tante nostre interazioni nella società».
Ruth viene assunta in una scuola prestigiosa perché si vuole dare spazio alla "diversity". È quel che è successo a lei? Che ha lasciato il lavoro dei suoi sogni per il dubbio di essere stato preso in quota "diversity"?
«Sì è vero, non direi che ho lasciato per quel motivo ma perché una volta che quell’idea mi è entrata in testa è stato impossibile liberarmene. Ha cambiato il mio modo di sentire quell’esperienza, come fosse diventata una trappola, non era più qualcosa che volevo celebrare. È molto complicato, ma avere una pelle diversa in questa cultura significa che non ti è permesso dimenticarlo, come ti si ricordasse sempre qualcosa».
Nel film Netflix "Malcolm & Marie" il regista nero è infuriato con un critico perché lo esalta come il nuovo Spike Lee. Ma lui dice "non è un film sulla razza, è sulla vergogna, sul senso di colpa…". Teme qualcosa di simile per il suo romanzo e per il film che ne sarà tratto? A proposito, è finito?
«Nella vita di tutti i giorni, nel lavoro, voglio essere capito come più di un segno o una figura, ma quel che c’è nel libro appartiene al lettore, io faccio il mio discorso e poi mi devo allontanare, non ho il permesso di controllare come se ne parlerà; è frustrante forse ma non posso. Quanto al film non sta a me fare annunci ma sono eccitatissimo perché ha un regista così straordinario e un cast che non si potrebbe chiedere di meglio…».
È stato finalista al National book Award, alla fine vinto da Charles Yu con un libro su un attore costretto a interpretare sempre il "generico uomo asiatico americano"... C’è interesse per le minoranze americane, è già effetto Biden?
«Non credo, Viet Than Nguyen ha vinto il Pulitzer con Il simpatizzante nel 2016, c’è sempre stato questo interesse per le identità da parte di istituzioni come la National Book Foundation; credo sia un riconoscimento da parte dei giudici, dei critici e dei lettori seri che l’America - almeno l’establishment letterario - per molto tempo non ha preso quel lavoro seriamente. Mentre ci sono scrittori che esplorano quel territorio e ai lettori interessa; non solo lettori di colore ma di tutti i tipi. Così forse si nota che c’è un interesse a guardare davvero all’identità e alla razza in modo più rigoroso».
A proposito di identità. I suoi genitori - architetto e medico immigrati dal Bangladesh - hanno cresciuto voi bambini come americani in tutto. Ma cibo, lingua, religione sono elementi fondamentali dell’identità...
«I miei genitori hanno dovuto decidere quale fosse la priorità e credo che per loro in quel momento fosse "diventare americani", riuscire professionalmente e finanziariamente. Fornire a noi figli il legame con quello che era per loro "essere del Bangladesh" non era interessante. O forse non avevano tempo o modo di farlo. I bambini sono testardi, io non volevo mangiare il cibo bengalese o parlare la lingua e l’America è un’idea molto potente; io volevo guardare cartoni e mangiare cereali, essere come gli altri».
La famiglia: Clay e Amanda si amano, hanno un buon lavoro ma non ne sono ossessionati. Di solito i genitori sono rappresentati peggio da letteratura e cinema. Perché è stato così buono?
«Essendo genitore c’è un conflitto di interesse, li volevo felici, che stessero bene, perché il libro in definitiva suggerisce che l’infelicità è inevitabile ma la felicità familiare è sufficiente, è tutto quello che possono avere ma va bene, è una bella cosa anche nel contesto di un mondo che sta precipitando».
Ho visto su riviste che ha una collezione di ritratti di George Washington in casa. Il personaggio clou si chiama George Washington e l’attore che lo interpreterà nel film sarà Denzel Washington. Un’ossessione?
«La collezione l’abbiamo tolta, ma quella figura rappresenta un’America agli inizi e così mi piace l’idea che il nome di George Washington "perseguiti" chi vive in questa casa, quanto a Denzel Washington è ovviamente una coincidenza, ma è vero che ci ho pensato... ».
Nel romanzo tutti sono ossessionati dalle case. E lei scrive che lo sport dei newyorkesi è il mercato immobiliare. Perché?
«Fa parte di un carattere locale, almeno di un certo tipo di persone - classe medio alta - a cui importa moltissimo dello status e della sua relazione con la casa, ho amici che guardano annunci immobiliari anche se non hanno intenzione di comprare o traslocare. È un modo di fantasticare su una vita diversa».
Alla fine i personaggi sembrano salvarsi ma gli incubi della società avanzata si materializzano per chi è rimasto in città: la star tv muore perché le ambulanze non arrivano, un uomo perché bloccato in ascensore, una donna asmatica nella metro ferma sotto l’Hudson. La strategia che i 6 mettono in atto per sopravvivere è aggrapparsi alle piccole cose?
«Credo sia il punto cruciale del libro, loro sopravvivono - almeno fino a dove finisce il racconto - per caso. E l’unica cosa che possono fare è continuare a sopravvivere».
Lei non spiega che ne sarà di tutti, vuol dire ci sarà un sequel?
«No, non credo, perché il libro è sul fatto che siamo soggetti a forze che spesso non vediamo e però modellano la nostra vita. So che alcuni lettori troveranno frustrante che non si spieghi oltre ma il punto è che non volevo parlare di ciò che accade lontano ma di come noi rispondiamo ogni giorno a quel che accade lontano».
L’unica che ha capito quello che è successo - insieme a cervi e fenicotteri - è Rose. Sa che ci vuole un nuovo modo di stare nel mondo. Ci salveranno le ragazzine come Greta Thunberg?
«Non so se ci salveranno né se è loro compito farlo, ma Greta Thunberg è un grande esempio della capacità dei più giovani, quelli che davvero erediteranno il pianeta, di guardare a ciò che sta succedendo in termini concreti e urgenti che sono scollegati dal denaro e dal potere. Sono interessati alla conservazione, alla tutela, all’umanità, ho molta fiducia nei giovanissimi, penso siano impegnati politicamente in un modo diverso da quello in cui lo ero io, forse perché sono obbligati, il pianeta è stato portato sull’orlo del baratro dalle generazioni precedenti».
Anche il Papa insiste su questi temi. Le piace?
«Questo Papa è fuori dal comune. È un leader religioso ma anche politico, sembra molto consapevole delle responsabilità nei confronti della povertà, della relazione con il pianeta e non solo con la fede e il Paradiso, che c’è una responsabilità verso questo mondo. È importante che lo dica Greta Thunberg ma fa una grande differenza sentirlo dal Papa».
Tra le varie calamità del libro ci sono riferimenti a Kim Jong-un e Trump. Ora c’è una calamità in meno…
«Sì e no: Trump se ne è andato ma le politiche che ha rappresentato, sfortunatamente, restano».