Tuttolibri, 3 aprile 2021
Venticinque riflessioni di Andre Dubus
Non esiste un solo modo di raccontare i grandi autori. Vale anche per Andre Dubus, nato a Lake Charles in Louisiana nel 1936 e morto a Haverhill in Massachusetts nel 1999. Già questi due luoghi e date tracciano un percorso, suggeriscono una delle tante vite contenute nella vita di uno fra i più grandi scrittori di racconti che gli Stati Uniti abbiano avuto, uno della stessa pasta di Cheever o Richard Yates o Gina Berriault, uno che aveva imparato lo storytelling da Hemingway e soprattutto Tolstoj e che, quasi si trattasse di una staffetta con passaggio di testimone, lo ha trasmesso a tanti suoi figliocci come Peter Orner, Dennis Lehane, John Smolens, ognuno in grado di declinarlo secondo le proprie prerogative. Il che rende ancora più complicato tracciare un percorso di Andre Dubus, un caleidoscopio dentro quel caleidoscopio più grande che è la letteratura degli Stati Uniti.
Ci sono tanti Dubus, dunque, e se non avete letto niente di lui, potrebbe servire qui una carrellata: c’è il Dubus nato in Louisiana, cresciuto con educazione cattolica e padre severo, che rimproverava al figlio l’eccessiva gentilezza; c’è il Dubus ragazzo che lascia la Louisiana e diventa tenente della marina e fa una vita assolutamente non adatta a lui, ma ha un padre da smentire. Segue l’incontro con la scrittura, la borsa di Creative Writing all’Università dell’Iowa, l’incontro con autori amici per lui fondamentali: il citato Yates, il mai ricordato abbastanza Crumley, il vulcanico Vonnegut, e quel grandissimo romanziere che è E.L. Doctorow, che aiutò il giovane Dubus a scrivere il suo primo e unico romanzo. È il 1967 e il libro si intitola The Lieutenant (l’ultima sua opera che resta da pubblicare in Italia, tutte le altre sono edite da Mattioli). È un buon romanzo, certo, e Burt Lancaster ne vorrebbe fare un film. Dentro il libro ci sono le esperienze di Andre in marina, il rifiuto per quel mondo fatto di machismo, lo stesso machismo che attraeva Hemingway e che esercita un fascino anche su Dubus. Fascino e repulsione.
Ma Andre sa che la scrittura per lui non è una semplice questione di pubblicare. Per lui è fuga, risposta, scavo. Il romanzo non gli va bene. Il romanzo non è la forma che soddisfa questa «ricerca dell’onestà» che è soprattutto con se stesso e che sente di dover fare attraverso pagine e parole.
Un’estate, in villeggiatura in un bosco, legge un racconto di Tolstoj ed è amore. È questo che vuole fare. Non scrivere romanzi ma racconti. Non romanzi che potrebbero avere successo ma racconti che sono visti come il demonio da gran parte degli editori. Inizia così una delle altre vite di Andre, quella dello scrittore fallito (e squisitamente fitzgeraldiano) ma apprezzato da tutti, quella dello scrittore ostinato che rifiuta le avances degli editori che cercano di convincerlo a scrivere un altro romanzo; lo scrittore che rifiuta, disprezza il New Yorker perché annulla lo stile, appiattisce gli autori a un gusto predefinito; lo scrittore che si accontenta di pubblicare su piccole riviste e guadagnarci poco. Questo Andre Dubus non è come Raymond Carver, non cede a nessun Lish. È un pugile che sta sul ring e prende botte e se ne sta steso a terra per qualche minuto, poi si rialza. Con orgoglio. L’orgoglio di chi ama il singolo peso di ogni parola.
Queste botte, questi pugni, riverberano nei suoi racconti, pieni delle sue riflessioni sull’umanità, spesso lunghi come piccoli romanzi; ma non sono romanzi, sono racconti, ritratti di uomini e donne, figli, padri e madri, di relazioni, tradimenti, divorzi – le sue relazioni, i suoi tradimenti, i suoi divorzi. Riflessioni su violenza e fede e desiderio, le ombre che affollano il nostro cammino mentre cerchiamo la luce. Dubus non smette mai di cercare la luce.
La cerca anche quando inizia una nuova vita, quella sulla sedia a rotelle, dopo l’incidente del 23 luglio 1986. Per salvare una ragazza sull’autostrada, si lancia, la spinge via, viene travolto da un’auto. Gli amputano una gamba, perde l’uso dell’altra. In quel momento è un autore, come si direbbe oggi, di nicchia o come si dice, uno scrittore di scrittori. Non vive con i libri (il suo agente ci si paga al massimo le sigarette). Vive di insegnamento. Perché, in una delle tante vite, Dubus insegna scrittura, è un meraviglioso maestro che riesce a far amare Hemingway anche a chi lo odia. Ma senza l’uso delle gambe, non può andare a insegnare. Senza l’uso delle gambe non è più, per l’ultima sua moglie, un buon marito. Lei se ne va e si porta via anche i bambini. Nel buio del dolore fisico e della solitudine, lo salvano le parole e la fede, o forse si potrebbe dire «la fede nelle parole».
Dubus riparte per il suo viaggio verso la luce e pubblica altri tre libri meravigliosi; la raccolta di racconti Ballando a notte fonda e due volumi di saggi, storie personali, riflessioni, Vasi rotti e il libro che arriva in questi giorni nelle librerie italiane, sempre con Mattioli, Riflessioni da una sedia a rotelle. È con questo libro del 1998 che Dubus porta a termine quel compito che abbiamo detto difficilissimo: raccontare il caleidoscopio delle vite di un uomo, mettere su tela quei tocchi di pennello che ci fanno intuire, percepire l’affresco dell’esistenza. Dentro c’è tutto, la vita dello scrittore e la vita dell’uomo, quell’uomo che potremmo essere anche noi, se avessimo la volontà di voler ascoltare come fa lui. Ascoltare il grido silenzioso delle donne che subiscono violenze, ascoltare la bellezza di un prato dove dei bambini improvvisano una partita di baseball, ascoltare le difficoltà di chi vive con una menomazione, ascoltare i luoghi dove si deposita la grazia, la voce secolare dei sacramenti, la bellezza dell’amore al mattino, i messaggi di Dio, qualunque Dio sia. Le riflessioni viaggiano dalla sedia lungo venticinque saggi e camminano con gambe diverse da quelle del corpo fisico; ci insegnano che anche dall’immobilità, in una stanza chiusa, nel carcere della solitudine, il cuore si può irradiare fino a vedere il mondo.