la Repubblica, 3 aprile 2021
La Svezia sceglie la regola della fiducia
La patente di mia madre è stata rinnovata fino al 2026. Per allora, avrà 101 anni. È felice e orgogliosa di avere la possibilità di usare l’auto. Certo, ha smesso di guidare da anni, ma non sono state le autorità a obbligarla. Le patenti svedesi vengono rinnovate in automatico, senza domande. Lo stato normalmente confida che gli anziani capiscano da sé quando è arrivato il momento di parcheggiare per sempre, come nel caso di mamma.
Un anno fa, il mondo aveva gli occhi puntati sulla Svezia, che aveva optato per la strategia di non chiudere la società, preferendo esortare i cittadini a prestare attenzione. Lavatevi le mani, mantenete le distanze, eccetera. E anche se è troppo presto per valutare le conseguenze della pandemia, è comunque possibile dire qualcosa su quello che è successo da quando i grigi burocrati del Ministero delle salute sono diventati o eroi del popolo o bersagli d’odio.
Dire che in Svezia la vita è ricominciata come prima sarebbe esagerato. Di fatti non è così. Certo, scuole e asili rimangono aperti, così come negozi, bar e ristoranti, ma molto è cambiato. Se si desidera comprare dell’alcol – cosa che molti svedesi desiderano – bisogna mettersi in coda sul marciapiede davanti al negozio per evitare di assembrarsi all’interno, e nei pub smettono di servirlo alle otto. Non sono ammesse tavolate di più di quattro persone. Durante la seconda ondata, hanno anche iniziato a raccomandare di usare la mascherina nei posti troppo affollati.
Badate bene: è una raccomandazione. Le mascherine sono state al centro, già la primavera scorsa, di uno dei conflitti più accesi. Noi non siamo come gli italiani, non baciamo chiunque incontriamo, eppure fin da subito si è fatto avanti uno sparuto gruppetto di medici che invocava misure più severe, tra cui l’obbligo della mascherina. Il dibattito che ne è seguito è stato, forse, una di quelle guerre per bande ricorrenti negli ambienti accademici, non priva di interventi prestigiosi, ma non ha convinto le autorità a cambiare linea. L’unica misura di comprovata efficacia, ci hanno detto, è il distanziamento sociale. Le mascherine possono trasmettere un illusorio senso di sicurezza.
Teatri, cinema e sale da concerto sono ovviamente sprangati, e le partite di calcio si disputano davanti a spalti sostanzialmente deserti. Chi può, lavora da casa. In autunno, quando i contagi hanno ripreso a salire e sono comparse nuove varianti, sono state introdotte ulteriori restrizioni; ma i cambiamenti sono avvenuti per gradi, non sotto forma di drastiche chiusure e divieti di uscire come in altri paesi. Per strada e nelle piazze, la folla è solo un po’ più rada del solito. Eppure siamo stati colpiti duramente, soprattutto in confronto ai nostri vicini nordici. La mortalità è stata alta fin da subito, specialmente nelle residenze per anziani e nei sobborghi densamente popolati delle principali città. È troppo presto per analizzare i dati, ma diversi indizi lasciano supporre che la principale causa non sia stata il nostro atteggiamento di maggior apertura, quanto fattori circostanziali come le abitudini vacanziere, la struttura demografica, la pianificazione urbana e così via.
Il fatto che da subito la Svezia sia stata usata come spauracchio ha a che vedere anche con le modalità di raccolta dei dati nel sistema sanitario. Mentre in alcuni paesi a essere contati tra le vittime erano solo coloro che morivano in ospedale, qui tutti i decessi sono stati conteggiati nelle statistiche. Di conseguenza, solo al momento in cui è stato calcolato l’eccesso di mortalità annuale si sono potuti fare raffronti sensati tra i vari paesi. In prospettiva europea, ci collochiamo più o meno a metà. L’Italia, la Francia, la Spagna e la Gran Bretagna hanno ciascuna un tasso di mortalità più alto della Svezia. Persino un Paese come l’Ungheria, dove realmente si è chiuso tutto, è stato colpito più duramente. Come ho detto, ancora non è finita. Al momento i contagi stanno risalendo; la variante inglese sta colpendo il Paese nel corso di una terza ondata, e in strada si radunano a manifestare no vax e altri picchiatelli convinti che tutto sia un complotto. Dove andremo a finire è impossibile dirlo, perché nessuna pandemia assomiglia alle altre, ma sono pronto a scommettere che noi europei ci ritroveremo a fare i conti con perdite più o meno simili, indipendentemente dalle strategie adottate dai rispettivi politici. L’Europa non è la Cina. La nostra libertà ha un prezzo.
Per il momento, preferisco rallegrarmi per i pochi vantaggi della pandemia. La nostalgia, per esempio, può essere una forza costruttiva. La letteratura svedese si è arricchita di un nuovo genere – i diari del coronavirus – e l’interesse per la natura, già alto, ha raggiunto nuove vette. Sentieri e riserve naturali sono più frequentati che mai. Io ho un’enorme nostalgia dell’Italia, ma sono riuscito a mitigarla scrivendo un libro sulle farfalle dell’arcipelago di Stoccolma, dove abito. Come sempre, c’è lo zampino del caso. È successo durante il nostro ultimo soggiorno in Liguria, nella primavera del 2017. Mia moglie e io abbiamo visitato quei paesaggi incomparabili insieme a Pietro Biancardi, il mio editore italiano, il quale alla fine del viaggio mi ha regalato una copia di Guida alle libellule e farfalle del Parco di Portofino. Mi si è accesa subito una lampadina: un giorno anch’io farò qualcosa del genere a casa mia. E così anche l’anno del Corona 2020 si è rivelato, a suo modo, prezioso.Non sono sicuro che la Nissan Micra di mia madre sia il veicolo adatto, perché ci sono duemila chilometri tra Stoccolma e Milano. Ma tant’è. Noi scrittori, malgrado tutto, viviamo dei nostri sogni. Se non quest’anno, allora il prossimo.
Traduzione di Andrea Berardini
(L’ultimo libro dell’autore è “Mamma è matta, papà è ubriaco”, pubblicato come i precedenti da Iperborea)