la Repubblica, 3 aprile 2021
La moda divertente di Jeremy Scott
Il sorriso di Jeremy Scott è di un’allegria contagiosa, come la sua moda. Per questo, quando diventa serio e parla con la voce rotta dal pianto, si ha la sensazione d’assistere a un momento molto privato. Lo stilista è a casa sua a Los Angeles, da dove via Zoom sovrintende alle fasi di lavorazione delle sue collezioni per Moschino, realizzate in Italia. È proprio parlando dell’attuale organizzazione del lavoro che si commuove. «Il mio stile non è cambiato con la pandemia, è il senso di responsabilità nei confronti di chi lavora con me che s’è decuplicato. Se i vestiti che faccio non vendono, loro rischiano il posto di lavoro: la crisi non lascia scampo. In questi mesi ho pregato di avere le spalle abbastanza larghe per reggere tutto questo, ripetendomi “non fare errori”». Parrebbe che finora il designer di errori non ne abbia fatti, vista la bella performance del marchio nella seconda metà dell’anno, soprattutto in Cina, complice l’impennata negli acquisti di beni di lusso in tutto il Paese.
Segno che l’idea di affidare il brand a questo americano 45enne nato in Missouri, cresciuto in una fattoria e appassionato di moda da sempre, tutto sommato era giusta. «Franco Moschino e io abbiamo guidato il marchio quasi per lo stesso numero di anni: lui l’ha fondato nel 1983 ed è scomparso nel 1994, io sono qui dal 2013, quindi da otto anni. Incredibile quanto lui abbia fatto in così poco tempo: quando Massimo Ferretti (presidente del gruppo Aeffe, proprietario del brand, ndr ) mi ha offerto questo lavoro, ho sentito il dovere di riportare il brand sotto i riflettori. Credo che non tutti capiscano che genio fosse Franco: una mancanza che cerco di correggere ogni giorno». Per riuscirci, Scott ha unito il lessico Moschino – fino ad allora disegnato da Rossella Jardini – con la sua estetica pop e sopra le righe. «Tanti pensano che, visto che le mie collezioni sono “divertenti”, io non faccia sul serio. I giornalisti francesi all’inizio mi chiedevano di continuo se fossi ironico, come se avessero paura che li stessi prendendo in giro. In realtà, io so fare questo. E visto che funziona, continuo a farlo».
È invece parere unanime che le presentazioni digitali del brand siano tra le migliori prodotte in lockdown: per la primavera/estate, Scott ha commissionato alla Jim Henson Creature Shop (quella dei Muppets) un défilé in miniatura con modelle, pubblico e stilista, cioè lui, in versione marionette. Per l’autunno/inverno, invece,
ha ricreato la sfilata di moda in Donne di George Cukor, film del 1939 che adora. Al posto di Joan Crawford, Dita Von Teese. «Per me era il bisogno del pubblico di svagarsi anche solo per cinque minuti, e su questo ho puntato». Scott la fa facile, ma non va sottovalutata la sua enorme esperienza, essenziale in certi casi: lui è in pista con un suo brand dal 1997, da quando dopo gli studi a New York se ne è andato a Parigi per lavorare con i suoi idoli, come Gaultier. Quando però non riesce a trovare uno straccio d’impiego, invece di mollare e ripiegare su altro, fa da solo. «Non avevo niente, dormivo sul divano di qualche amico quando andava bene e in metropolitana quando andava male. I materiali per la prima collezione li ho presi ovunque, discariche comprese».
Il suo show di debutto manda in visibilio gli addetti ai lavori. «A chi mi chiede consiglio su come iniziare, dico sempre di seguire il proprio istinto: con me ha funzionato». La sua carriera decolla, e dalla sera alla mattina diventa il nuovo bad boy della moda, con amici come Karl Lagerfeld. «Tutto quello che guadagnavo lo reinvestivo nel mio lavoro. Mai amato gli sperperi», assicura. «Il primo regalo che mi sono fatto è stata una bicicletta con cui giravo per Parigi; l’ho pagata 300 dollari, all’epoca per me una spesa assurda, ma equivaleva a dire che ce l’avevo fatta. Perciò è stato terribile quando me l’hanno rubata: non per i soldi, ma per quello che rappresentava nella mia vita. Dannazione, rivoglio la mia bici!».