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 2021  aprile 02 Venerdì calendario

Intervista ad Amanda Gorman

Amanda Gorman è la ragazza con il cappotto giallo che ha illuminato la cerimonia di insediamento di Joe Biden in una fredda mattina di gennaio. «Un’esile ragazzina nera/ discendente di schiavi, cresciuta da una madre sola/può sognare di diventare presidente/e ritrovarsi a declamare per chi lo è diventato». Ci sono voluti meno di sei minuti per recitare «The Hill We Climb - Parole di coraggio, speranza e dintorni», il poemetto edito ora in Italia e in edicola con il Corriere. Tornata al suo posto, la più giovane Poetessa Nazionale e sua madre si sono guardate: la loro vita era cambiata. Da dove nascono la forza espressiva, la fierezza e la gioia? Lo chiediamo a lei. 
«Brave enough to be it»: sono le ultime parole della tua poesia, sul «coraggio di essere luce». Ci vuole coraggio ad avere speranza e ad essere sé stessi al di là delle aspettative. Pensi che la tua generazione sia più coraggiosa e sicura, meno esitante nell’esprimere la propria identità rispetto alle donne di generazioni precedenti?
«Penso che, se la mia generazione è più coraggiosa, è solo perché stiamo in piedi sulle spalle di giganti. Se ho avuto l’opportunità di esibirmi all’inaugurazione è stato grazie alle donne che prima di me hanno portato avanti il cambiamento: Maya Angelou, Elizabeth Alexander, Phillis Wheatley e così via. Mi è permesso d’essere sicura di me dopo secoli di donne che hanno avuto paura. La mia speranza è che la prossima generazione sia ancora più coraggiosa e fiera di quanto lo sono io».

Amanda, 23 anni compiuti il 7 marzo, è cresciuta in un quartiere di Los Angeles all’intersezione tra mondi diversi, «dove le periferie nere incontrano l’eleganza nera, che incontra la gentrificazione bianca che incontra la cultura latina», come ha raccontato al New York Times. Il percorso da casa alla scuola privata di Malibù era una finestra sulle diseguaglianze e contribuiva a farla sentire un outsider, «anzi letteralmente un’aliena».
Viveva in un bilocale con la sorella gemella Gabrielle (oggi regista e attivista), il fratello maggiore Spencer e la madre Joan Wicks; del padre non parla mai. Tra le strofe di In This Place che colpì la first lady Jill Biden (è lei che l’ha voluta alla cerimonia di insediamento), scritta dopo la marcia dei suprematisti bianchi a Charlottesville nel 2017, Gorman tratteggia la figura di «una madre sola che soffoca in una classe senza finestre» insegnando agli studenti neri ad esprimere i propri pensieri «cosicché la figlia possa comporre questa poesia per voi». Risponde alle nostre domande, fatte insieme ad un piccolo gruppo di altri giornalisti.

Sei stata cresciuta da una madre single, un’insegnante che ha fatto frequentare a te e a tua sorella un laboratorio di scrittura (e che spegneva la tv a casa). Che influenza ha avuto su di te? 
«Il fatto che mia madre spegnesse la tv ha portato mia sorella e me a creare anziché consumare contenuti. Siamo state incoraggiate a raccontare le nostre storie, che fosse attraverso il teatro, il musical o gli sketch comici che mettevamo in scena a casa. Dato che dovevo intrattenermi da sola, scrivere non era un’incombenza ma un segno distintivo di auto-espressione. Adesso guardo troppa tv in streaming, ma la mia esperienza passata mi permette, dopo ore di binge watching, di fermarmi a pensare: adesso con questa ispirazione che cosa creerò?».

Comincia a scrivere (canzoni) a 5 anni. All’asilo le diagnosticano un disturbo uditivo che rende difficile pronunciare le parole. I coetanei le chiedono: «Perché parli così? Da dove vieni?». (Il suo prete cattolico una volta la sentì rispondere: «Vengo dalla Costa Est»). In terza elementare scopre la poesia. Maya Angelou, che per anni da bambina si chiuse nel mutismo, è una sua eroina (è stata la poetessa dell’inaugurazione di Bill Clinton). Un’altra è Toni Morrison: prima di leggere L’occhio più azzurro in terza media, Amanda non aveva mai visto una ragazza con la pelle nera sulla copertina di un libro e le storie che lei stessa scriveva avevano protagonisti bianchi. «In quel momento è sbocciata la mia voce» ha raccontato al Times «la voce di una ragazza nera senza vergogna che capiva anche, per via dei disturbi del linguaggio, cosa significhi essere zittita, e non lo augurava a nessuno».

Come hai imparato a superare le difficoltà nel pronunciare le parole? 
«Con tanto, tanto esercizio! Anni di terapia del linguaggio e di pratica a casa. Ogni giorno, dopo la scuola, facevo esercizi con la lingua e mi registravo mentre pronunciavo i suoni. Recitare le poesie e il rap mi ha molto aiutato, era un modo per rendere divertente una cosa difficile. Cantavo anche le canzoni di Hamilton: la poesia di quel musical è incredibile e contiene molti dei suoni che mi era difficile pronunciare. E poi gli interpreti sono così bravi nell’enunciazione che quasi riuscivo a sentire il modo in cui producono i suoni con la bocca, pur senza vederli di persona».
Aaron Burr, Sir, una delle canzoni di quel musical, era ideale per esercitarsi, perché Gorman aveva problemi a pronunciare soprattutto le «r» (e, fino a tre anni fa, il suo stesso cognome). È ipersensibile al suono: «Lo vedo, anziché sentirlo», ha spiegato in passato. I disturbi uditivi influenzano anche il modo in cui scrive, molto legato alla vista.
Quando componi le poesie, usi ancora le word cloud (nuvole di parole)? E hai ancora bisogno di ascoltare la musica mentre scrivi?
«Sempre! La word cloud non finisce necessariamente tutta nella mia poesia, è più un rituale che una necessità. Mi aiuta a entrare nello spirito, è un modo per incoraggiare la mano a trasferire qualcosa sulla carta, anche se disconnesso. Adoro anche ascoltare la musica, lo faccio tuttora: tra le mie preferite ci sono le composizioni di Michael Giacchino, Hans Zimmer, Alexandra Harwood e Rachel Portman».
Recitare in pubblico non è stato facile. Si rifugiava in bagno e, stringendo i fogli con le mani sudate, provava a pronunciare: “Terra”, “ragazza”... Se non ci riusciva, pensava a dei sinonimi. Era un sollievo quando i fari l’accecavano sul palco impedendole di vedere il pubblico. Ma ora non considera più «la disabilità come una debolezza» ha detto al Los Angeles Times. «Mi ha resa l’artista che sono». Le ha donato un senso particolare del suono, della pronuncia e dell’enfasi.
Durante la cerimonia, era possibile ascoltare la tua poesia leggendola nelle tue mani. Come hai imparato a parlare e usare la gestualità con uno stile così personale? Quali performer e poeti ti hanno influenzato? 
«Ho sempre gesticolato molto, anche nella vita di tutti i giorni. Ho fatto danza e così, quando ho iniziato a scrivere poesie, ho portato con me quella comprensione del movimento. Questo mi ha aiutato a comunicare parole che per me erano impegnative, per via dei disturbi del linguaggio. Molti altri performer e oratori usano le mani, come Maya Angelou o Beyoncé. Osservo il loro stile, ma cerco soprattutto di crearne uno mio, visto che è il risultato della mia storia personale».
La poesia è politica per Gorman. Nel 2014, a 16 anni, ha fondato One Pen One Page, organizzazione che incoraggia i giovani di classi disagiate a scrivere: quell’anno fu nominata “Giovane poeta laureata” di Los Angeles, a 19 è diventata la prima d’America. Nel 2015 ha pubblicato la prima antologia, The One for Whom Food is Not Enough (Colui per il quale il cibo non è abbastanza), ed è andata a studiare sociologia a Harvard (si è laureata l’anno scorso). All’Osservatore Romano, che la paragona a Malala e a Greta, ha detto di sentirsi parte di «un fenomeno globale: giovani, soprattutto giovani donne, che in tutto il mondo si stanno rialzando e stanno prendendo il loro posto nella storia».
È una generazione «che non ha paura di denunciare il razzismo e l’ingiustizia», osserva Michelle Obama intervistandola su Time. Amanda ha scritto sulla brutalità della polizia, sull’aborto, sui cambiamenti climatici, sui bambini migranti detenuti al confine. Crede che «il dovere del poeta sia di osservare l’oscurità e condurre le persone fuori dall’ombra».
Hai finito di comporre la poesia dell’insediamento proprio durante l’assalto al Campidoglio. In che modo quell’evento ha influenzato te e ciò che scrivevi? 
«Ha aggiunto sicuramente un livello di urgenza al processo di scrittura. L’insurrezione dei suprematisti bianchi al Campidoglio ha consolidato ai miei occhi le ragioni per cui era necessario scrivere una poesia come The Hill We Climb , che ci ricordasse che abbiamo valori condivisi di speranza, compassione, equità e democrazia. Quella notte del 6 gennaio sono rimasta sveglia fino a tardi: è stato allora che ho completato la poesia e l’ho mandata al Comitato Inaugurale».
Qual è il cambiamento più grande nella tua vita dopo la performance alla cerimonia inaugurale? 
«Senza dubbio la mia riconoscibilità. Avevo già una piattaforma per esprimermi prima dell’insediamento, ma tutto sommato non ero nessuno, raramente venivo riconosciuta. Speravo che le mie parole fossero ricordate, ma non avrei mai sognato di diventare in prima persona una figura di interesse globale. Ciò ha richiesto alcuni aggiustamenti, ma non ho rimpianti: sono grata per tutto questo, perché mi permette di toccare così tante persone con le mie parole».
Scrivere poesie e essere un poeta è sempre stata un’attività solitaria. Ora che sei una figura pubblica temi che l’attenzione dei media possa influire negativamente sulla scrittura? 
«Scrivere è un’attività solitaria solo se vuoi che lo sia. Ovviamente c’è l’aspetto fondamentale che scrivi da solo e sei tu l’unica persona che può portare alla luce le tue parole. Ma io ho anche trovato un’incredibile comunità in questo nuovo capitolo della mia vita, ho conosciuto belle persone, artisti che mi ricordano che non sono sola, L’aspetto che più ha alterato il mio lavoro di scrittura è l’enorme numero di richieste che ricevo da ogni parte del mondo. Dico di sì a tutto, questo significa che non ho tempo per scrivere e che ho perso un’enorme parte di me stessa. Così sto imparando a preservare il mio tempo, a preservare il mio spirito e a cercare persone che incoraggino la mia arte».
Forse è per spirito di preservazione che Gorman ha evitato di entrare nel dibattito su due suoi traduttori — catalano e olandese — sostituiti dopo alcune critiche perché non sono neri. Forse le è impossibile intervenire nella questione senza offendere qualcuno.
Da una parte, non esita a usare Twitter per appelli come questo: «Viviamo in una società contraddittoria, che può celebrare una giovane poetessa nera e spruzzare spray al peperoncino a una bambina di nove anni. Guardate me, sì, ma guardate anche tutte le altre ragazze nere che restano invisibili. Non posso accettare e non accetterò che la mia ascesa sia solitaria».
A marzo hai scritto di essere stata seguita, nel suo quartiere a Los Angeles, da una guardia che la considerava sospetta. 
«Gli ho mostrato le chiavi del mio palazzo. Se n’è andato senza scusarsi. Un giorno ti chiamano icona, il giorno dopo sei una minaccia».
D’altra parte, la fama le sta insegnando ad essere cauta - e un po’ lo è sempre stata. «Ricordo innumerevoli volte in cui ero con gli amici che scattavano selfie» ha raccontato sempre a Time «e mi sono fatta da parte dicendo: ragazzi, correrò per la Casa Bianca tra trent’anni, devo stare attenta alle immagini che circolano».
Vuoi correre per la presidenza nel 2036. Quali sono i prossimi passi in vista del tuo obiettivo?
«In pratica, i prossimi passi saranno sul cammino che ho seguito finora, parlando e agendo su questioni per me importanti. Ho avuto la fortuna che le donne che ammiro, inclusa la Segretaria di Stato Hillary Clinton, la Speaker della Camera Nancy Pelosi e la mia parlamentare Maxine Waters mi abbiano tutte offerto la loro guida». Il successo dei giovani, «specialmente delle giovani nere», è visto spesso come temporaneo, «un lampo nel cielo». Ma Gorman si ripromette d’essere «un uragano ricorrente».
Scrive ancora, ha confessato, per quella bambina dentro di sé «con i dentoni, i capelli crespi e la pronuncia ingarbugliata» che non si vedeva riflessa nella letteratura. Sta lavorando alla nuova antologia di poesie. Intanto, a settembre, uscirà il suo libro per bambini Change Sings .
Ora provi gioia o paura quando sali sul palco? 
«Entrambe. Così dev’essere. La paura mi ricorda l’importanza di ciò che sto facendo; se il mio lavoro non richiedesse una dose di coraggio, dovrei chiedermi che cosa esattamente sto facendo. Ma ciò che mi motiva a superare la paura è l’amore puro e la gioia che provo quando scrivo e mi esibisco».