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 2021  aprile 02 Venerdì calendario

L’Abbecedario di Gillo Dorfles

Q come Quadro, e questo è ovvio. Ma U come Ugola, R come Rodomonte, M come Macaco... che diavolo di abbecedario è? È quello scritto, e disegnato, da Gillo Dorfles agli inizi degli anni Cinquanta per i nipoti Giorgetta e Piero, figli del fratello Giorgio, che stavano imparando a leggere e scrivere. “Io in realtà”, dice Giorgetta “andavo già alle elementari. La calligrafia sotto le immagini di lettere e numeri è la mia. Gillo inventava personaggi e disegni e io scrivevo la parola”.
Più che un serioso strumento didattico quell’Abbecedario (ora pubblicato per la prima volta da Bompiani) era un gioco tra zio e nipoti, un “inganno” scrivono Giorgetta e Piero Dorfles nell’introduzione, “che sottintendeva un modello un po’ bizzarro di percorso pedagogico” ma soprattutto “una sfida a impadronirci, oltre che degli strumenti che sono alla base della scrittura, di un vocabolario molto più ricco e originale di quello degli abbecedari scolastici”. L’obiettivo principale era “infettarci con il germe dell’ironia, visto che questi personaggi non avevano niente di serioso, e si ispiravano piuttosto alla vena caricaturale che molto spesso ha improntato la produzione pittorica di Gillo”."Immagini l’impressione e lo stupore” ci dice Piero Dorfles – che incontriamo in un bar romano poco prima che anche il Lazio finisca in zona rossa – “di un bambino che impara la lettera L come Lampreda. Per noi erano definizioni incomprensibili e un grande divertimento. Abbiamo continuato a giocarci per anni, anche quando eravamo più grandicelli”.
Disegnati su carta velina ("la carta allora era un bene prezioso, questa era quella usata per fare le copie “a carbone” dello studio di avvocato di mio padre") quei fogli sono rimasti in una cartellina a Trieste per quasi settant’anni, insieme a una serie di disegni di animali fantastici. “C’è” ricorda Giorgetta “il Gorgo, la Mucca con gli stivaletti e, uno dei nostri preferiti, un mostro con un occhio in testa per guardare il futuro”. Che poi è un po’ un autoritratto immaginario dello stesso Dorfles che anche dopo aver compiuto i cento anni (è scomparso poco prima dei 108, nel 2018) “non celebrava il passato, era curioso di sapere cosa sarebbe successo il giorno successivo. E non amava fare previsioni. Alla soglia del nuovo millennio una giornalista gli chiese: ’Cosa si aspetta dal 2000?’. Lui le rispose: ’Di essere morto’”.
Allergico alle celebrazioni, odiava in sommo grado quelle che riguardavano la sua vecchiaia. “Il giorno del suo centesimo” ci dice Piero Dorfles “eravamo insieme nella casa di campagna. Gli domandai: ’Che regalo vuoi?’. ’Che mi porti in montagna nei boschi’. Uscimmo e camminammo per chilometri. Poi ci fermammo per un gran pranzo e rientrammo in serata. Mi disse: ’Grazie di avermi fatto uscire. Altrimenti avrei dovuto passare la giornata a rispondere al telefono a quelli che volevano farmi i complimenti per l’età’.Non amava rivangare il suo passato straordinario. Al contrario di molti anziani Dorfles tendeva a tacere sulla sua giovinezza e sull’amicizia con i più grandi scrittori e artisti del Novecento. “Anche con noi” dicono i nipoti “non era solito cedere alle rievocazioni. Poi però, parlando d’altro, ti raccontava di aver organizzato da ragazzo a Trieste delle feste danzanti domenicali con le figlie di Umberto Saba e di Italo Svevo, con cui giocava anche a bocce”.
Sportivo a ottimi livelli (equitazione, scherma e sci, “ha sciato fino a 106 anni” sorride il nipote), diplomato al conservatorio in pianoforte ("ma studiò anche l’organo, che suonava da ragazzo in chiesa"), laureato in medicina con specializzazione in psichiatria, Dorfles non è stato solamente uno dei più importanti critici d’arte del secolo scorso, ma anche il “creatore” di una disciplina nuova: con il saggio Il disegno industriale e la sua estetica del 1963 fu tra i primi in Italia a studiare, e a dotare di solidi strumenti storici e teorici, il lavoro dei designer che agli inizi del secondo dopoguerra stavano ricostruendo il panorama domestico e quello degli ambienti di lavoro.
"Era certamente un grande studioso di estetica” riflette Piero Dorfles “eppure l’accademia lo ha sempre guardato con sospetto. Già il fatto che fosse laureato in medicina e che non appartenesse a nessuna scuola gli crearono delle difficoltà di carriera all’interno dell’università. La maggioranza dei suoi scritti è pervasa da un fondo sarcastico e dissacratore, da una visione personale sempre controcorrente e, si sa, gli accademici raramente sono ironici”.
Difficile trovare un campo o un argomento che non lo interessasse. Lui, raffinatissimo studioso di Bosch e Dürer, scrisse perfino un articolo sulla scomparsa delle sputacchiere dai locali pubblici. “Musicalmente, solo per fare un esempio, aveva interesse per i compositori contemporanei come Berio e Malipiero. Ma suonava di tutto anche se dopo un po’ si annoiava di seguire gli spartiti e iniziava a improvvisare opere post-romantiche e dodecafoniche. Ha suonato fino a pochi giorni dalla morte. Disprezzava la musica banale però lo incuriosivano anche il pop e il rock. Una volta prenotò un tavolo in un ristorante che affaccia sul Duomo per vedersi tutto un concerto di Rita Pavone a Milano”.
Lettore bulimico, arrivava a leggere anche tre libri al giorno di generi diversissimi. Non facile immaginare l’ampiezza della sua biblioteca privata. “In realtà si tratta ’solo’ di una decina di migliaia di volumi” sorride il nipote. “Perché Gillo, appena finito di leggere un libro lo buttava, se pensava che non gli sarebbe più servito. Saliva in treno, iniziava a leggere e una volta a destinazione strappava le pagine che gli restavano da finire. Poi buttava via anche quelle. In comune con mio zio avevo la passione per i romanzi di fantascienza. A casa ho tanti volumi che lui mi passava a pezzi e che io poi ho rimesso insieme con lo scotch. Con i libri non aveva un rapporto feticistico, così come non lo aveva con le opere d’arte. Non ne comprò mai una. Quelle che aveva in casa a Milano non erano frutto di collezionismo, ma regali di pittori e scultori”. Certo, il fatto di aver avuto come amici carissimi Lucio Fontana e Fausto Melotti (in qualche intervista Dorfles raccontò le loro scorribande notturne a bere e a mangiare nei ristoranti di Brera e al mitico Bar Jamaica) rendono speciale quella raccolta che, per ora, è visitabile solo su appuntamento con il nipote Piero.Di padre goriziano di origine ebraica, madre genovese cattolica, e di solidissima formazione scientifica ("Subito dopo la laurea lavorò anche per un breve periodo come assistente nella clinica psichiatica di Pavia, dove realizzò dei divertentissimi disegni dei pazienti") Dorfles è sempre stato affascinato dai fenomeni ultraterreni, dall’irrazionale, dalla dimensione mistica e rituale della religione ma non dai suoi dogmatismi. In un articolo raccontò anche di essere andato a far visita, mettendosi in fila per ore, a un veggente nella campagna toscana che leggeva il futuro gettando dell’olio nelle bacinelle d’acqua. “E ogni inizio anno” raccontano sorridendo Giorgetta e Piero “leggeva i tarocchi, utilizzando un bellissimo mazzo dipinto dalla sua amica pittrice Maria Lupieri”.
Elegante senza ostentazione amava talvolta “dire cattiverie sulle persone” ed era profondamente irritato (c’è addirittura una sua raccolta di articoli che si intitola, appunto, Irritazioni) dalla maleducazione, esibita e compiaciuta. Come “vedere intorno a me persone che non sanno tenere la forchetta, che non sanno pulirsi la bocca, che non sanno soffiarsi il naso, che non sanno parlare sottovoce, che gesticolano tutto il tempo... Non parliamo poi dell’eccesso nell’uso del telefono cellulare, che forse non sarà una delle cose peggiori, ma che mi irrita fortemente”.
Chiediamo al nipote Piero che gli è stato accanto tanti anni: cos’è che gli dava più fastidio? “Che tutti lo considerassero come uno studioso d’arte più che un pittore. Ogni volta che veniva inaugurata una sua mostra diceva: ’Preferirei leggere una stroncatura, piuttosto che l’ennesima critica superficiale’”.