Il Sole 24 Ore, 2 aprile 2021
La Francia nella trappola del Sahel
Un tempo era il giardino di casa: il Sahel era il cuore dell’espace françafricain, di cui Parigi si è sempre presa cura per conservare lo status di grande potenza, frenare l’espansionismo degli “avversari” geopolitici – Usa e Urss un tempo, Usa e Cina oggi – per proiettare sullo scenario internazionale le proprie forze armate, per aver migliore accesso alle materie prime e, negli ultimi anni, per contrastare gruppi terroristici islamisti. Ora sta diventando un peso di cui la Francia vorrebbe in parte liberarsi.
È un cambiamento radicale della politica estera francese. I costi – non solo economici, 1,1 miliardi nel 2020 – ormai superano i benefici. Persino il Franco Fca, moneta di tre dei Paesi del Sahel – Niger, Mali e Burkina Faso – è stato radicalmente riformato eliminando gli aspetti più “paternalisti”. Le operazioni militari però proseguono e i successi non mancano, anche se il nuovo presidente del Niger, Mohamed Bazoum, vittima mercoledì di un tentativo di colpo di Stato, ha parlato martedì di «relativo, condiviso fallimento». Le polemiche diventano allora sempre più aspre: per le vittime civili (che l’Armée smentisce), per la presenza di tanti soldati stranieri, che crea discontento, e per i due milioni di profughi, più della metà nel Burkina Faso. L’offensiva degli jihadisti non demorde e il comando dell’operazione militare Barkhane ha dovuto definire priorità tra gli obiettivi da colpire. La zona delle tre frontiere, tra Mali, Burkina Faso e Niger dove insiste l’État islamique au Grand Sahara (Eigs) è ora il cuore delle operazioni.
Non è facile però mantenere coesione tra gli obiettivi: il Mali ha appena inviato nell’area 1.200 militari, ma dopo un rinvio di un anno per il colpo di Stato, non gradito alla Francia, e mal definite “questioni finanziarie”, poi risolte con Parigi. Lo stesso Mali e il Burkina Faso tentano intanto di aprire un dialogo con alcuni gruppi jihadisti, per dividerne il fronte. È un’opzione a cui Parigi si oppone. «Non si discute con i terroristi, si lotta», ha sempre detto il presidente Emmanuel Macron che, al summit dei Paesi dell’area, il G-5 del Sahel, a febbraio, è riuscito a far dichiarare come nemici Iyad Ag Ghaly, capo tuareg rispettato da tutta la jihad ma ora considerato traditore e apostata per aver esplorato la possibilità di trattative con il Mali, l’alleato Amadou Koufa e il Groupe de soutien à l’islam et aux musulmans, Gsis, affiliato ad al-Qaida. Tre giorni dopo il Mali ha costituito un team ufficiale per i colloqui.
Persino in Francia, per la prima volta, una piccola maggioranza di cittadini è ora a favore del ritiro dei 5.100 militari. Il costo umano è ingente: sono 55 i soldati caduti. Un anno fa Parigi aveva inviato 600 militari in più, tra i quali 200 soldati della legione straniera che per un mese hanno compiuto, secondo lo stato maggiore, «infiltrazioni, imboscate, controlli di territori, operazioni di rastrellamento e perlustrazione e operazioni eliportate» per neutralizzare terroristi e rifornimenti, agendo senza basi operative, con rifornimenti aerei.
Ora si parla invece di un graduale ritiro, anche se l’annuncio, previsto al summit del G-5, non c’è stato. Un disimpegno, in questa fase, peggiorerebbe la situazione. «Sarebbe paradossale indebolire il nostro dispositivo nel momento in cui disponiamo di un allineamento politico e militare favorevole», ha detto Macron. Pur avvertendo che «cambiamenti senza dubbio significativi saranno apportati a tempo debito». Ora si parla di un annuncio in autunno.
Macron vuole prima verificare come può evolvere l’operazione Takuba, con la quale ha cercato di coinvolgere i partner europei. Avviata il 27 marzo 2020, ora prevede la partecipazione di Francia, Svezia, Cechia, Estonia, Italia, Danimarca, Portogallo, Belgio e Olanda. Grecia e Ungheria si sarebbero fatte avanti e la Serbia ha confermato la sua adesione. Interesse è stato manifestato da Slovacchia, Norvegia e persino dall’Ucraina. Marocco e Algeria dovrebbero presto sostenere gli sforzi degli europei.
Mancano però i Grandi. L’Italia c’è, ma solo dopo un anno di ricognizioni ha inviato 200 soldati, operativi dal 12 marzo. La Germania, invece, non ha risposto all’appello. Berlino non è assente dall’area: contribuisce finanziariamente all’Alleanza per il Sahel, il programma di ricostruzione che ha varato progetti per 16,9 miliardi, e dispiega 417 militari nel Mali (l’Italia 2, la Francia 22) nell’ambito della missione Onu Minusma, guidata dalla Spagna e non autorizzata al combattimento. Il suo impegno sale a 1.550 militari se si conta il programma di addestramento Ue, sempre in Mali.
Non è stato invece possibile, per Macron, coinvolgere Berlino nel Takuba, orientato al contrasto militare attivo. Il ministro della Difesa Annegret Kramp-Karrenbauer avrebbe accettato l’invito, ma il mondo politico tedesco è diviso: un intervento risulterebbe impopolare. I Paesi del Sahel, ha detto dopo il summit G-5 il ministro degli Esteri Heiko Maas, «dovrebbero lottare per due cose: una forza che ripristini la sicurezza, e servizi pubblici efficienti. Le persone hanno bisogno di forze che le proteggano dal crimine, ingegneri che riparino strade e acquedotti, e giudici che non prendano tangenti». Anche per Macron sono interventi importanti ma, ha detto, solo «dopo che sarà conseguita una vittoria militare». Le posizioni, almeno sulla sequenza degli interventi – mai irrilevante in politica – non potrebbero essere più lontane.
Per la Francia l’intervento in Sahel è dunque sempre più costoso e impopolare, ma uscirne sarebbe controproducente: lascerebbe spazio a rivali strategici come la Cina e ad alleati ingombranti come gli Usa e darebbe forza al terrorismo. È diventato, insomma, una vera trappola.