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 2021  aprile 02 Venerdì calendario

Colangeli ha imparato tutto Dante a memoria

Moltissimi sanno che Giorgio Colangeli è il padre di Francesco Totti nella serie Speravo de morì prima che si conclude stasera su Sky, e lo amano come introverso artista di cinema. Pochi sanno che lui nasce come attore di teatro ragazzi, va in scena per Antonio Calenda, per Ermanno Olmi in Piccola città , per Giuseppe Marini, e per Prima di andare via di Filippo Gili. Pochissimi sanno però che conosce a memoria tutta laDivina Commedia e che si accinge a un’impresa da Guinness al Teatro Argentina, d’accordo col Teatro di Roma e col Comitato Dantesco: scandire appena potrà in tre serate Inferno, Purgatorio e Paradiso, ovvero 100 canti, 14.233 versi e 101.698 parole tutte stampate nella mente. Un exploit inverosimile.
Colangeli, che rapporto particolare ha lei con la memoria?
«Un rapporto molto buono.
Quando a scuola l’imparare a pappagallo era, per i detrattori, sinonimo di rammentare senza capire, io avevo ancora insegnanti, tra cui il provenzalista Ferdinando Taviani, che raccomandavano l’oralità di poesie e prosa.
Ripassavo l’italiano ad alta voce per casa. Mio padre era un esperto di giochi di memoria. Poi il training domestico m’è servito per il mestiere d’attore. Per conto mio, un giorno del 2006 ho deciso di immagazzinare un testo complesso, e ho scelto la Divina Commedia , iniziando a studiarla sul litorale pontino».
Un apprendimento facile?
«No, dopo cinque, sei canti mi accorsi che la manutenzione era pesante. Allora mi spostai sull’ Orlando Furioso ma le cose andarono peggio. Il format metrico di Dante in terza rima, con lo schema aba bcb cdc, aiuta la memoria molto di più delle strofe in ottava rima di Ariosto. Ritornai a memorizzare pian piano la Divina Commedia , e scattò un piacere, una dimestichezza naturale. Lo facevo a tempo perso. Nel 2012 ricordo d’aver finito di assorbire tutto il poema».
E fino ad oggi non ha mai utilizzato in scena questo patrimonio?
«M’è capitato solo una volta.
Suddividendo in tre anni, un cantico all’anno, questo viaggio, su un palcoscenico di Grottammare, dal 2015 in poi. Col passare del tempo ho curato l’omogeneità della restituzione. La memoria è un salvadanaio ma non tutto s’accumula con la stessa efficacia.
Sono stato favorito da periodi di riappropriazione sempre più corti, e ora avverto una stabilità dell’intera materia, che gestisco quasi come un juke-box.
Inconsciamente pensavo all’anniversario dantesco, ma ha contato tantissimo anche la stasi del primo lockdown dello scorso anno».
Ha altre facoltà mnemoniche?
«Ho facilità a ricordare i numeri.
Quando vado in macchina, o in bicicletta, sbircio le simmetrie nelle targhe, e ho una propensione a ricavarne rebus di parole. Nei set del cinema, fisso bene tutti i movimenti che accompagnano le battute. Nella vita segno in un diario alcune cose che faccio per rammentarmi della giornata completa: non funziona granché».
Cosa pensa del Dante di Benigni?
«Ho visto in tv il suo XXXIII dell’Inferno, Ugolino, a Siena. Era lui. Straripante, formidabile a ogni commento. Ero così preso, che mi aspettavo strapazzasse con la stessa verve anche i versi. Lì mostrava un’intelligente soggezione».
Come ha organizzato l’imminente quasi-maratona dantesca all’Argentina?
«Non doveva essere solo una faccenda virtuosistica, né solo un modo per far conoscere l’opera integrale. Ne ho parlato con Giorgio Barberio Corsetti. Meglio una via di mezzo, sorprendente e utile, per una summa sensuale di esperienza e emozione. Il progetto è in sette serate, due per l’Inferno, due per il Purgatorio, e tre per il Paradiso, da cadenzare settimanalmente, pronosticando 10 minuti a canto, mille minuti in totale, una parabola di 16 ore suddivisa per tre. Se per Inferno e Purgatorio la velocità è agonistica, nel Paradiso rispetto soste astronomiche, teologiche e etiche, e la fruizione del pubblico. Mi è complice Marco Maltauro. Il calendario dipenderà dalla riapertura dei teatri».
A che si deve il suo progressivo trasferimento dal teatro al cinema?
«Quando negli anni 90 vidi sui manifesti d’uno spettacolo che il nome d’un attore televisivo costituiva la "ditta", e due campioni della ribalta seguivano a caratteri piccoli, capii che i valori erano cambiati, e ho cercato accoglienza nella cultura dei film. Il palcoscenico resta comunque una mia casa. Umberto Orsini m’ha cercato come coprotagonista del suo Temporale di Strindberg, ora slittato. Se si verificherà, sarà un premio alla carriera».
Passando alla fiction su Francesco Totti, con gli ultimi due episodi in arrivo, il papà Enzo (scomparso a ottobre) da lei impersonato sembra la somma di altre memorabili sue figure paterne.
«La mia aria taciturna di genitore l’ho in effetti maturata coi padri de
L’aria salata di Angelini, di Un posto sicuro di Ghiaccio, di Se chiudo gli occhi non sono più qui di Moroni. Nella serie do a Totti una muta testimonianza di famiglia normale nonostante i successi, e appoggio la sua fedeltà a Roma e alla Roma. Durante l’ultima partita con addio e apoteosi, noi genitori stiamo a casa, e io di nascosto di mia moglie, Monica Guerritore, riguardo Francesco a due anni che dà calci alla palla in spiaggia, e mi commuovo».
Gli parla l’anima, a Colangeli, nel film. E un po’ anche ora.