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 2021  aprile 01 Giovedì calendario

Le lettere di Capote

Pasticcino. Angelo. Dolce magnolia. Fanciullo mio diletto. Radioso. Tesoruccio. Cuore. Questi sono solo alcuni dei numerosi epiteti con cui lo scrittore Truman Capote si rivolgeva ai destinatari delle sue lettere. Per la prima volta sono state tutte raccolte nel volume È durata poco la bellezza (edito da Garzanti, pp.608 28), curato da Gerard Clarke. Il risultato è una contro-narrazione che svela l’intimità dell’autore di Colazione da Tiffany, senza celarne la fame di gloria e la depressione.
IL CURATORE
«Truman Capote scriveva ai suoi amici nello stesso modo in cui parlava, senza freni, inibizioni o ricercatezze formali», commenta il curatore (che nel 1988 ne ha scritto la biografia, edita da Frassinelli) e sfogliare questo volume somiglia all’atto di lanciarsi in una pesca miracolosa. Sessant’anni di missive, scovate fra collezioni private e biblioteche in giro per gli Stati Uniti, partendo dalla prima, scritta a dodici anni, nel 1936: «Come sai il mio cognome è cambiato da Persons in Capote, pertanto apprezzerei se in futuro ti rivolgessi a me come Truman Capote». Dopo il divorzio dei genitori, Truman è stato adottato dal patrigno Joe, e con questa lettera taglia i ponti con il padre. L’ultima, altrettanto breve e potente, è un telegramma per Jack Dunphy. Correva l’anno 1982: «Mi manchi ho bisogno di te telegrafami per quando ti posso aspettare». Il destinatario è l’amore di una vita, il suo compagno per 35 anni, lo scrittore Jack Dunphy con cui condivise tutto, il successo travolgente di A sangue freddo sul quadruplice omicidio di una famiglia nel Kansas nel 1959 e l’inesorabile parabola discendente che l’avrebbe spazzato via. Ma prima c’è stato un successo sfolgorante.
TUTTOFARE
Svezzato al New Yorker come tuttofare (inizialmente aveva il preciso compito di temperare le matite), spiccò il volo e viaggiò per il mondo con Jack, spedendo e ricevendo lettere a piè sospinto e quando pensò d’avercela fatta commise l’errore di mordere la mano che lo vezzeggiava. Capote è ritratto in centinaia di scatti durante fastosi balli di gala con i divi del Novecento, da Maria Callas a Marlene Dietrich, era ospite fisso delle crociere degli Agnelli ma dopo venti giorni a bordo, sbarcando, diceva d’essersi annoiato, tanto che l’unica tappa interessante era l’Harry’s Bar a Venezia (lo rivela perfidamente Alberto Arbasino, nella prefazione del Meridiano all’autore americano).
Capriccioso ed eccentrico, talento puro dal carattere irriverente, scrivendo Preghiere esaudite voleva firmare l’opera definitiva. Uscirà postumo, composto di soli quattro capitoli che prima vennero anticipati sui giornali, pagine al vetriolo in cui non risparmiava nessuno, da Gloria Vanderbilt a Happy Rockefeller e Mona von Bismark. Fu il suo volo d’Icaro. Nel tentativo di inchiodare i vizi del jet set newyorchese sotto falsi nomi («sono troppo scemi. Non se ne accorgeranno», rivela George Plimpton, autore di una biografia al vetriolo), il bel mondo che lo aveva accolto gli chiuse le porte in faccia e lui precipitò in un buco nero d’alcolismo e tossicodipendenza.
Ma prima di tutto questo c’è stato un sognatore, un uomo affascinato dalla bellezza e le lettere più candide sono quelle italiane. Prima che l’intima amicizia con Harper Lee (l’autrice de Il buio oltre la siepe) si raffreddasse, prima che tutto venisse corrotto dal successo e dall’invidia per celebrare A sangue freddo organizzò un party al Plaza Hotel di New York, con 500 invitati fra il 1949 e il 1959, con Jack visse per dieci anni in area mediterranea. Brevi soste a Venezia, Firenze, Roma (in una lettera racconta che «un esponente della prostituzione locale» aveva svaligiato la casa romana dello scrittore Tennesse Williams) e poi Ischia, dove rimarranno tre mesi, fra nuotate e passeggiate in carrozza; e ancora, una tappa a Tangeri e nell’estate del ’53, Portofino, «un bel posto soprattutto se fossimo ancora le ragazzine che eravamo un tempo. Yacht e milionari ovunque». E finalmente, ecco Taormina, nella stessa casa che 25 anni prima era stata di D. H. Lawrence. A quel tempo Capote era l’astro nascente della narrativa americana e stava cominciando il suo secondo romanzo, L’arpa d’erba (pubblicato nel 1951) ma economicamente le cose si misero maluccio e per non dover rientrare a casa, si trovò «a lavorare al salvataggio di due sceneggiature», fra cui Stazione Termini di Vittorio De Sica. Quel decennio italiano lo avrebbe consacrato con la scrittura di Colazione da Tiffany (1958) ma sul grande schermo, per il ruolo di Holly Golightly, avrebbe voluto la prosperosa Marilyn Monroe, non Audrey Hepburn e lui si arrabbiò al punto che vagheggiò persino di far causa alla produzione. Per fortuna, lo fermarono in tempo.
Ecco, da un epistolario ci aspettiamo incredibili rivelazioni e colpi di scena, forse persino una chiave di lettura che ribalti tutto ciò che credevamo di sapere sul grande romanziere americano che venne elogiato da Norman Mailer e finì i suoi giorni nel 1984, in preda all’alcool e alla depressione.
INCONCLUDENTE
Invece, la grande bellezza di questa raccolta è proprio il suo essere deliziosamente frivola, inconcludente, piena di errori ortografici – per la fretta quasi compulsiva di non rompere il flusso di lettere, chiarisce il curatore – di capricci e pettegolezzi, capace di restituirci ampie porzioni della vita intima di Capote. E intanto lo seguiamo a zonzo per il mondo, affamato di gloria, perfido ma bisognoso d’un amore puro, proustiano, un sentimento raro come l’unicorno bianco, irraggiungibile per la maggior parte degli esseri mani che lui assaggiò nei tre decenni con Jack Dunphy. Eppure, non bastò a renderlo felice.