il Fatto Quotidiano, 1 aprile 2021
Sulla solitudine
Beata solitudo, sola beatitudo si legge in molti chiostri e certose, a dire che solo separandosi dal mondo e dagli altri si può trovare tranquillità d’animo. Salvezza o maledizione, scelta o obbligo, la solitudine, racconta Aurelio Musi nel raffinato Storia della solitudine. Da Aristotele ai social network, è da sempre temuta, ora più che mai, quanto ricercata.
Non va però confusa con l’isolamento, come racconta Adriana Zarri in Un eremo non è un guscio di lumaca in cui descrive la scelta di trasferirsi nel 1975 in una vecchia cascina piemontese per ritirarsi in un laico monachesimo. “L’isolamento è un tagliarsi fuori”, scrive, come fanno i moderni hikikomori, fenomeno d’origine giapponese, poi occidentalizzatosi, che si autoescludono da ogni forma di relazione, “ma la solitudine è un vivere dentro”, precisa. È ben diverso.
Tra le pagine sfilano monaci, anacoreti, santi e sante – una su tutte Santa Maria Egiziaca, vissuta nel 300 d. C., prostituta per scelta che poi si convertì –, ispirati da Sant’Agostino e dal suo binomio tra solitudine, intesa come abitare se stessi, e comunione con Dio e gli altri. Condizione tipica del cristianesimo, ma non della Grecia antica di Euripide per cui solitudine è negatività da superare, né di Eschilo per cui è fonte di sofferenza, angoscia, possibile anticamera della follia. Il suo Prometeo è incatenato da Efesto “a questa vetta deserta, dove non potrai udire voce umana né vedere l’aspetto di alcuno dei mortali”.
Musi attinge dalle arti, letteratura, filosofia, musica e anche pittura così, su suo invito, cerchiamo le immagini di quadri come L’assenzio di Degas, Solitudine di Van Gogh o il bianco e nero dell’americano Jason M. Peterson che mette sovente una piccola figura umana al centro di uno spazio enorme. Scopriamo poi che per Montaigne ritiro e solitudine sono il retrobottega in cui “sequestrarsi e raccogliersi in se stessi” senza per questo esagerare finendo per perdere “gaiezza e salute”, mentre per Pascal i buoni costumi vengono corrotti dai rapporti cattivi. Pertanto “bisogna restare in silenzio più che si può, e intrattenersi con sé soltanto di Dio”. Ciò non esclude godere di compagnia ma consapevoli che il prossimo, miserabile e impotente come noi, non ci darà aiuto.
Nel Don Chisciotte di Cervantes la solitudine è incarnata dall’eroe a cavallo “sulle tracce di un percorso iniziatico solitario, che attraversa luoghi avventurosi, ingaggiando duelli, affrontando prove difficili in onore del suo casto e cortese amore”, mentre il giovane Werther di Goethe, ritiratosi dal mondo borghese in cui non si riconosce, si rifugia nel contatto con la natura agreste che inizialmente pare essere l’optimum ma gradualmente, nella sua manifestazione più struggente, lo rende irrequieto.
Consapevole fu invece la scelta di Emily Dickinson, reclusa ma operosa nella sua stanza di Amherst, i cui versi sono immortali: “Ha una sua solitudine lo spazio/ solitudine il mare e solitudine la morte/ eppure tutte queste son folla/ in confronto a quel punto più profondo/ segretezza polare/ che è un’anima al cospetto di se stessa/ infinità finita”.
La riflessione più matura sulla solitudine, osserva Musi, vicina alla nostra attualità e anche alla dimensione dei social network, dove a esteriorizzarsi è l’immagine patinata di ciò che si vuole apparire, dimentichi dell’interiorità, completamente separati dall’altro, sta nelle pagine finali de Le origini del totalitarismo di Hannah Arendt secondo cui il problema dell’uomo moderno è l’estraneazione. L’uomo estraniato è circondato da altri, ma è privo di contatti reali ed è esposto all’ostilità del prossimo sconosciuto. L’uomo solitario è invece con se stesso, è due in uno. “Il problema della solitudine” spiega Arendt “è che questo due in uno ha bisogno degli altri per ridiventare uno”, ma se manca “la compagnia fidata e fiduciosa dei propri simili” scatta il cortocircuito. Bisognerebbe forse allora seguire Leopardi quando sosteneva che il disincanto della vita consente due vie di uscita: il nichilismo o, meglio, trascorrere l’esistenza fra sognare e fantasticare, abitando in “qualche liquore generoso”. Almeno quello possiamo ancora farlo senza chiedere permesso.