Corriere della Sera, 31 marzo 2021
Intervista a Fabio Volo
Nel tentativo di proteggere la figlia dagli influencer, Fabio Volo finisce per diventarlo, suo malgrado. Accanto, a mo’ di famiglia allargata, i vicini di casa Nino Frassica, Paola Tiziana Cruciani, Paola Minaccioni. Accade in Genitori vs Influencer di Michela Andreozzi, dal 4 su Sky Cinema e in streaming su Now.
In una scena il protagonista, prof di Filosofia («il mestiere che avrei voluto fare») dice alla figlia Ginevra Francesconi che gli influencer, e ce n’è anche una vera, Giulia De Lellis, «sono imbecilli che non sanno fare nient’altro nella vita, il prodotto peggiore di un’epoca alla deriva».
Nella vita, Fabio Volo, lo pensa anche lei?
«È il messaggio veicolato che fa la differenza, diventa negativo secondo il tema che si sceglie. Ci sono quelli dedicati all’alimentazione sana…L’umanità si è evoluta perché si influenza, un tempo c’erano i filosofi. La parola influencer è bella. Io appartengo alla generazione precedente, dove i più grandi ti insegnano, papà era panettiere e mi ha insegnato a fare il pane. Poi si invertì la ruota, fui io a insegnargli a usare il computer. La gente mi conosce perché faccio delle cose, libri, radio, film, che diventano il prodotto. Non mi faccio usare dal prodotto».
E il suo rapporto con i social?
«Internet cerco di sfruttarlo il più possibile, quando scrivo un libro invece di andare alla Biblioteca comunale digito Google. Invece non uso tanto i social network, ho un milione di followers su Instagram ma non è il mio mezzo, mi sento goffo, faccio fatica a dire Ciao ragazzi sto mangiando gli spaghetti».
Come si regolerà con i suoi due figli?
«Sebastian ha 7 anni, Gabriel 5. Il cellulare lo usano al massimo per fare una foto, non ho giochi. Cercherò di dare loro stimoli per potersi difendere, per usare e non farsi usare, e poi li lascerò andare».
Qual è il fascino maggiore nell’essere padre?
«Che si vive due volte, ieri ho insegnato ad andare in bici senza rotelle e mi sono ricordato quando capitò a me. Oltre al fatto che i figli ti chiariscono i rapporti che avevamo con i nostri genitori».
Quando lei da ragazzo discuteva con suo padre…
«M i chiudevo in camera e mi isolavo, oggi puoi chattare con l’Australia. Quello di mio padre era un altro mondo, mi ha insegnato il rispetto del lavoro, la disciplina. Poi è subentrata la cultura della Lotteria, l’idea di fare fortuna con un colpaccio, di non costruire. Io sono sempre stato stimolato dai no più che dai sì, quando mi dicevano lascia stare tanto non ce la farai, mi caricavo il doppio».
Crescere nella povertà cosa lascia?
«A tavola non lascio avanzi e spengo la luce anche quando sono in hotel».
Gli odiatori sociali?
«Ho iniziato a essere insultato con i fax. Il web è pieno di frustrazione e insicurezza. Ma non è che il mondo di fuori sia acqua e sapone, basta fare un giro in auto. Solo che ora si può dare dello str…a distanza, e non per le mascherine».
Il film affronta altri temi...
«A parte lo scontro tra genitori che invecchiano e figli che crescono, c’è il tema del pregiudizio che è un retaggio del passato, penso al tormentone con cui nel film a Paola Minaccioni dicono sei single allora sei gay, cose che si dicevano quando ero ragazzo io».
Il cinema è morto, come si dice in una scena?
«No ma dalla pandemia uscirà molto diverso e farà più fatica del teatro. Ci siamo abituati a vedere un film a casa, le serie tv sullo smartphone. Sarà un evento o un fenomeno di nicchia, Avengers o il film d’autore francese. I Festival resteranno, io ho recitato in undici film e mai fatto un tappeto rosso, se guardi Venezia tre quarti della gente che ci cammina su non ha nulla a che fare col cinema. Ma non mi manca, mai frequentato i Festival. Sono tornato dopo una pausa perché volevo fare il papà a tempo pieno. Ma piuttosto che aiutare i miei figli con la Dad, la scuola on line, preferisco essere intervistato».