Corriere della Sera, 31 marzo 2021
Nella nuova Libia potere a suon di soldi
Non è affatto strano che a Tripoli siano oggi in tanti a parlare di un’era «neo-gheddafiana». E non è solo per la ricomparsa in pubblico di personaggi che sino all’estate del 2011 costituivano i meccanismi di funzionamento economico e amministrativo del vecchio regime. L’essenza del nuovo corso si riassume nell’idea centrale del neopremier, il 59enne uomo d’affari misuratino Abdul Hamid Dbeibah, per cui la frammentazione localistica si supera comprando l’alleanza dei libici a suon di dollari, regalie, assistenza sociale e posti lavoro ben pagati. Dbeibah è stato chiaro nella sua intervista al Corriere due giorni fa: divisioni tribali, campanilismi, persino la miriade di milizie diverse, possono essere più o meno battuti se lo Stato centrale è disposto ad assicurare congrui stipendi a tutti, con tanto di pensioni a pioggia e assistenza medica gratuita. A ben vedere, è la stessa logica clientelare che garantì a Muammar Gheddafi quattro decenni al potere: lui era il dispensatore unico di prebende e ai suoi fedelissimi si doveva fare ricorso per ottenere ciò che si desiderava. Il dissenso si batteva con il welfare state calibrato ad hoc per generare dipendenza ed elidere le forze centrifughe.
Non mancano però sostanziali differenze. Dbeibah non ha cercato e non cerca di ricostruire gli apparati repressivi della vecchia dittatura. Le farneticazioni demagogiche del «libro verde» teorizzate dal leader della Jamaria non hanno nulla a che fare con la sua visione del business senza pregiudiziali e con il suo pragmatismo manageriale nel condurre la politica. La Jallabia beduina è stata appesa al chiodo. Tende e cammelli sono riservate ai turisti. Dbeibah veste in giacca e cravatta. Il suo linguaggio è perfettamente comprensibile a Washington, come a Roma, Parigi, Ankara, Dubai, Il Cairo, Mosca o Pechino. «Potremmo avere qualche problema con le milizie ideologiche», ammette riferendosi ai jihadisti, che però considera minoritari. Anche Khalifa Haftar, il militare della Cirenaica che voleva conquistare Tripoli, sembra un problema in via di superamento. «Un isolato», osserva.
Ma, per fare tutto ciò, servono montagne di soldi, che implicano commercio, export energetico, giganteschi lavori pubblici, crediti esteri, finanziamenti: insomma apertura al mondo. Ed è proprio in questo contesto che l’Europa, con in testa l’Italia, gioca un ruolo centrale. Se fino a ieri le armi russe e turche sembravano dettare legge, oggi sono vitali i rapporti economici. Mosca è al verde. Le casse di Ankara sono vuote. Ma non quelle europee. «Mi attendo grandi sviluppi dall’incontro con Mario Draghi il 6 aprile», dice. C’è da credergli.