La Stampa, 30 marzo 2021
Fiona May e il razzismo. Intervista
Il razzismo, Fiona May, lo conosce bene. Per anni è stata una delle pochissime atlete nere a vestire l’azzurro. Due ori mondiali e due volte argento alle Olimpiadi nel lungo, ha dovuto saltare anche oltre le discriminazioni. Ma vissuti da mamma certi commenti bruciano ancora di più: «Oggi il razzismo si manifesta in forme sottili e subdole, la sostanza però non cambia. Servono misure drastiche».
L’assenza del pubblico negli stadi dà l’illusione che il razzismo nello sport sia scomparso.
«È, appunto, un’illusione. Si è semplicemente spostato, sui social network per esempio: in questi mesi ho letto cose terribili. Credo sia necessario intervenire con il pugno duro».
Come?
«Con una sorta di Daspo sui social: ormai sono come droghe e alcune persone si disperano se restano per poche ore senza Facebook, Twitter o Instagram, figurarsi per mesi. Ma è una misura che non si può rimandare. Lo stesso vale per combattere il bullismo da tastiera».
E nel mondo dello sport?
«Servono punizioni esemplari da parte dei giudici sportivi. La scusa di non aver sentito i "buu" allo stadio non è più tollerabile: le federazioni devono usare il pugno di ferro».
L’Italia è un Paese razzista?
«Da noi c’è ancora molto lavoro da fare. Qualcuno nega addirittura che il problema esista: il razzismo c’è e va sradicato, a partire dalla società. Credo che moltissime persone siano stufe di molte frasi o atteggiamenti intollerabili».
Le sue figlie sono state vittime di razzismo?
«Ricordo un episodio dopo le prime gare di Larissa. Qualcuno scrisse: "È bella, ma non è italiana". Si è infuriata. Io le ho detto che non ne valeva la pena: "Sei molto più italiana di questi ignoranti", ho ribattuto. Anastasia, la più piccola, è tostissima: difende le altre bambine e si batte contro gli atteggiamenti discriminatori».
L’assenza di sport ha destabilizzato molti ragazzi durante la pandemia.
«Anche gli adulti. Prima del Covid lo sport era un po’ sottovalutato, come fosse un’attività accessoria. In questo periodo sono stati pubblicati diversi studi: evidenziano l’importanza dello sport per la salute mentale».
In Italia si fa troppo poco sport?
«A volte viene concepito solo come competizione tra campioni, qualcosa di élite. Ma lo sport appartiene a tutti, è uno stile di vita. Ed è fondamentale in periodi come questo, con moltissimi costretti a lavorare da casa. Spero che l’approccio cambi, soprattutto pensando ai giovani: i governi devono fare uno sforzo in più. Bisogna investire nelle associazioni sportive, negli enti amatoriali: è la migliore forma di prevenzione per la salute dei cittadini. Ma bisogna partire dal basso, a cominciare dalle scuole».
Dove le ore di educazione fisica sono un paio a settimana...
«Decisamente troppo poco. Deve avere più spazio: mia figlia ha 11 anni e ha bisogno di muoversi di più, come tutti i suoi coetanei. Ma è un discorso che vale anche per altri Paesi, come l’Inghilterra».
Prima Larissa era "la figlia di Fiona May". Ora si è scrollata l’etichetta e punta a superare il suo record.
«Sarà dura» (ride, ndr).
Esulterà o si arrabbierà?
«Ormai sono in pensione: sarei contentissima. Significherebbe che la dinastia sportiva continua».
Neanche un briciolo di invidia?
«Assolutamente no. Prevale l’orgoglio di mamma».
È più forte Fiona o Larissa?
«Siamo due generazioni diverse, è impossibile fare confronti. Oggi i materiali possono aiutare. Poi io nella mia carriera non ho potuto fare moltissime gare indoor. Lei di testa è sicuramente più matura di me alla sua età».
Un insegnamento che le ha dato?
«Sfruttare le delusioni e i fallimenti per diventare più forte. Ci è riuscita».
Più tesa in pista da atleta o adesso prima delle gare di sua figlia?
«Ora sono molto più nervosa, non c’è paragone. Prima della gara mi scrive sempre messaggi in cui è molto agitata: facevo lo stesso con mia mamma, adesso è il suo turno».
Dov’era quando Larissa ha saltato 6,91 metri, eguagliando il suo primato?
«Allo stadio, ad Ancona, anche se all’inizio non sarei dovuta andare. Ma avevo la sensazione che mi sarei persa qualcosa. Larissa non sapeva che fossi lì».
La prima reazione?
«Ho urlato come una pazza: lei ha guardato verso l’alto e mi ha riconosciuta. Più tardi l’ho abbracciata e le ho detto "Perché non hai fatto 6,92?"».
Alle prossime Olimpiadi potrebbe trovarsi a commentare le gare di sua figlia in tv.
«Sarebbe complicato. Difficilissimo mantenere il distacco. C’è un ex atleta inglese che fa le telecronache delle gare del figlio: dovrei chiamarlo e chiedergli qualche consiglio».
A Tokyo ci saranno solo spettatori nipponici, non proprio un tifo caloroso.
«Dopo un anno così, credo che per gli atleti l’unica cosa che conta è gareggiare. Il sapore sarà diverso, ma è pur sempre un’Olimpiade. I tifosi diventano un fattore secondario. Show must go on, come si dice in questi casi».
A 51 anni ha ancora un sogno nel cassetto?
«Più d’uno. Oggi il mio desiderio più grande è tornare a teatro con un testo scritto da Andrea Bruno Savelli durante il lockdown. Spero che il mondo dello spettacolo possa tornare presto a respirare».