la Repubblica, 30 marzo 2021
Vittorio Storaro ancora al lavoro
«Ho usato il tempo della pandemia per immergermi nella ricerca e prepare il futuro» racconta Vittorio Storaro, 80 anni. L’autore della fotografia – non gli piace la definizione “direttore” – si concede una pausa dal restauro, a Cinecittà, dei dieci film girati con Bernardo Bertolucci per ricevere il premio “La chioma di Berenice” (la cerimonia domani dalle 21.30 su mymovies.it) che ha vinto per Rifkin’s Festival di Woody Allen (sarà in sala con Vision).
Il progetto si chiama Vittorio Storaro nei film di Bertolucci. «Ho voluto mettere ordine nel mio passato, preparato un libro e una mostra fotografica. Ho onorato l’ultima promessa fatta a Bernardo, di dedicarmi al restauro dei film fatti insieme, uno da assistente e nove da autore, da Prima della Rivoluzione,nel ’63 a Il piccolo Buddha, nel ’93. Purtroppo due anni fa con la Cineteca e Bernardo lavorammo a Ultimo tango a Parigi, le tonalità erano andate perdute, ho forzato il cromatismo e il contrasto di ogni immagine, si sono perse la morbidezza e la delicatezza proprie di Brando». Con i nuovi sistemi digitali, spiega, si possono recuperare le sfumature: «Io sono la memoria mia e di Bernardo, non mi limito a conservare, posso tornare a quel che avevamo immaginato». Storaro e Bertolucci hanno condiviso trent’anni di viaggio: «Mi manca il fratello. Siamo cresciuti insieme, lui 22 anni e io 23, cercando di realizzare noi stessi. Mi pare che ci siamo riusciti». Dopo Il piccolo Buddha le loro strade si sono divise: «Bernardo mi disse “non so perché ma sento che devo proseguire da solo il mio percorso”. Ma non ho mai abbandonato i nostri film, ho continuato a curarli. Anche se fisicamente non è qui, Bernardo mi accompagna ogni giorno, rullo dopo rullo, a Cinecittà. Rivivo i nostri giorni insieme». L’ultimo sodalizio è quello con Woody Allen, una collaborazione giunta al quarto film. «Dopo la separazione da Bernardo ci sono stati progetti difficili e un momento in cui ho pensato di fermarmi. È arrivata allora la chiamata di Woody. Ma io non mi riconoscevo in tutti i sui film e non sapevo se avrei trovato la giusta immagine, così chiesi di leggere il copione. Mi ha mandato copione e un biglietto, “Vittorio non ti preocupare, se non ti senti nel mood aspettiamo un altro film"». Era Cafè Society. «Ho puntato sulla dualità tra personaggi, storie, visioni, dialoghi. Studiato fotografie e dipinti della comunità ebraica a New York nel ’35 e la visione hollywoodiana del ’40. Volo da Woody, parliamo tre ore. Lui ama il bianco e nero, è passato al colore ma non lo capisce. Gli mostro il lavoro e lui: “La tua visione raffigura esattamente ciò che ho scritto"». Ai tempi di La ruota delle meraviglie, racconta Storaro, «ero di nuovo in difficoltà, bella sceneggiatura ma scene di 10 pagine ambientate in una cucina, in uno studiolo. Lui mi dice “non preoccuparti, vieni a fare i sopralluoghi”. Vado a Coney Island, che non conoscevo, e scopro che il film è dentro un parco didivertimenti, finestre di fantasia dei personaggi, sono impazzito dalla gioia. Ho parlato con Woody della fisiologia dei colori, di come ciascuno influisca non solo sul nostro occhio ma anche sul battito del cuore, il respiro, il metabolismo, l’emozione. Woody mi dice “è perfetto per il mio film, per le emozioni tra i personaggi che vibrano in modo diverso”. Così lavoriamo con Woody». Com’è stato il set di Rifkin’s Festival? «Allen è come Fellini, i suoi film sono tutti un Amarcord, a volte è un bimbo, un giovane, un anziano. Ma è sempre se stesso. Stavolta si dipinge regista, a un festival con la moglie giovane, che non si riconosce nel nuovo modo di fare cinema. E allora sogna di entrare nei film classici: Welles, Fellini, autori francesi». La differenza tra Bertolucci e Allen? «Con Bernardo ogni giorno c’era un bacio sulla guancia, un abbraccio. Con Woody, anche dopo tanto tempo, al massimo ci si stringe la mano. È schivo, ma intellettualmente è fantastico».