il Fatto Quotidiano, 29 marzo 2021
LA quaresima, il digiuno e i banchetti dei cardinali
Era il sedicesimo secolo e a Firenze, nei cosiddetti tempi di magro, un ufficiale perlustrava la città annusando odori sospetti. Un fiutatore d’arrosti che poi denunciava chi violava la regola dell’astinenza dalla carne.
La Quaresima – le cinque settimane che precedono la Pasqua – è il più noto periodo di magro, sintetizzato dal classico “Venerdì pesce”, che non a caso è il titolo dell’originale saggio di Claudio Ferlan, ricercatore di Trento, su “digiuno e cristianesimo” (Il Mulino, 192 pagine, 15). Una volta infatti il digiuno era decisivo per i cattolici. Oggi, nota Ferlan, papa Francesco non ne ha fatto cenno nell’ultimo messaggio per la Quaresima e spesso il digiuno ha un’accezione più larga, come quando lo scorso anno l’arcivescovo di Bologna, il cardinale Matteo Zuppi, più semplicemente don Matteo, invitò a un digiuno digitale, quaranta giorni senza Internet e senza social. Peggio che la fame vera e propria per molti, probabilmente.
Si calcola che nel Medioevo tra digiuno e astinenza si arrivava anche a 150 giorni di precetto, cioè di osservanza della regola. Ma, si sa, i cattolici hanno sempre risentito della morbida tolleranza di Roma. Altro che la sobrietà luterana della Riforma. E così tra dispense ed eccezioni, talvolta solo i poveri pagavano il fio del magro. Non solo. Ferlan distingue tra formalismo e penitenza e spiega come l’astinenza dalla carne spinse a raffinatissimi banchetti pieni di pesce e ogni altro bendidio. Lo stesso Lutero, benché critico, sperimentò il digiuno per una questione di tempo. Quando era ancora un monaco cattolico tra i mille impegni che aveva non voleva sottrarre ore alla preghiera e così rinunciò al cibo per le orazioni. Risultato: “Persistenti dolori alla testa, disorientamento, stordimento, addirittura rischio di pazzia”. Quindi “secondo la testimonianza del padre della Riforma fu Dio stesso a sollevarlo ‘con una certa violenza da quella macelleria di preghiere’”.
Pure tra gli stessi cattolici fioccavano dubbi su questa forma estrema di rinuncia – va ricordato Ignazio di Loyola, il fondatore della Compagnia di Gesù – ma pesava l’ultimatum di San Tommaso sulla pancia piena che induce all’odiata lussuria. Il saggio di Ferlan è meticoloso e ricostruisce il rapporto tra digiuno e cristianesimo come un pranzo, diviso in quattro parti che s’intitolano: “Antipasto”; “Minestra”; “Porzione”; “”Pospasto”. Ancora a proposito della mollezza di taluni cardinali, cui si contrapponeva per esempio la “santa anoressia” delle mistiche. Nel saggio c’è la storia di Luigi Desanctis, diciannovesimo secolo, padre camilliano cattolico che divenne protestante.
Nel suo libro Roma papale, Desanctis raccontò come rimase nauseato da un banchetto romano durante la Quaresima penitenziale, in casa di un arcivescovo. Un autentico salotto gnam gnam d’antan: “Una superba tavola imbandita di ogni delicatezza, era nel mezzo: pesci di ogni sorta apprezzati con gusto squisito, confetture e frutta di ogni specie, senza neppure mancarvi l’ananasse del Perù (…). Camerieri in abito nero scalcavano e servivano le vivande fredde (…); mentre altri passavano offrendo gelati, e bibite, thè, e vini…”. Formalmente, l’astinenza dalla carne era osservata.