Corriere della Sera, 29 marzo 2021
«La virtù mi uccide». È Roth secondo Roth
«Continuavo a essere virtuoso», raccontò una volta Philip Roth a Saul Bellow, «in modi che mi stavano distruggendo. E quando finalmente ho permesso al ripugnante di entrare, ho capito che ero vivo». Ha fatto lo stesso Blake Bailey in Philip Roth: The Biography, 912 pagine, in uscita negli Stati Uniti per Norton il prossimo 6 aprile e in Italia per Einaudi l’anno prossimo. Un’opera monumentale che il «Corriere» ha letto in anteprima. Un lavoro di quasi 10 anni. Più di 100 ore di conversazioni con Roth, circa 200 interviste ad amici, amanti, familiari, collaboratori, esecutori, estimatori e detrattori. La sola «scaletta»: 35 pagine. Già autore di brillanti biografie di John Cheever e Richard Yates, Bailey ha avuto accesso incondizionato a documenti, corrispondenze, appunti e manoscritti inediti, parte dei quali saranno resi pubblici dalla Biblioteca del Congresso, che alle carte di Roth dedica un intero magazzino, solo nel 2050.
Ne viene fuori una biografia letteraria che è molto di più, un Roth umano, troppo umano. Un genio che ama, odia, ferisce, lotta con sé stesso, soffre, sbaglia («sono chi non fingo di essere», dirà). Perché, con buona pace di chi oggi vorrebbe cancellarlo, si può essere uno dei più grandi scrittori americani di sempre e insieme un maniaco sessuale, e comportarsi a volte da bastardo, anche se Bailey sottolinea quanto Roth fosse, specie negli ultimi anni, un uomo estremamente dolce e vulnerabile. E si può scrivere di grandissimi bastardi e maniaci sessuali senza esserlo, anche se Roth, mentre a parole lamentava il malinteso, esteticamente lo sfruttava, piazzando alter ego in tutti i libri, omonimi inclusi, mescolando realtà e fiction fino, a volte, a non ricordare lui stesso dove finisse l’una e iniziasse l’altra.
Come nelle varie versioni narrative dell’inganno di Maggie, la prima moglie. Lui la tradisce, vorrebbe lasciarla. Lei gli dice che è incinta. Roth la manda a fare un test di gravidanza alla farmacia dietro l’angolo. Poi, temendo che un figlio gli distruggerebbe la carriera, la convince ad abortire, promettendo di sposarla. Lei accetta, si sposano nel 1959. Solo che non c’è alcun bambino da abortire. Maggie, confesserà anni dopo, non era andata in farmacia ma ai giardini, dove, avvicinata una donna incinta, l’aveva persuasa, con la scusa di un esperimento scientifico, a fornirle un campione di urine. Roth non la perdonerà mai, più volte si dirà sul punto di ucciderla e quando Maggie morirà davvero, in un incidente d’auto nel 1968, proverà sollievo, fischiettando per tutto il tragitto in taxi verso il funerale.
La madre Bess, adorante se non proprio soffocante come quella del personaggio di Portnoy, il baseball, le prime ragazze. «Le erezioni del 1950 erano le stesse del 2012», racconterà Roth, «ma quelle del 1950 non andavano da nessuna parte». Negli anni Settanta insegna all’Università della Pennsylvania. Il capo del dipartimento seleziona per lui fra gli studenti in lista d’attesa le ragazze più attraenti. Anni più tardi, rientrato alticcio nella casa che divide con Claire Bloom, l’attrice inglese che sposerà nel ‘90, Roth trova un’amica della figliastra in camicia da notte e tenta l’approccio, liquidandola poi come sessualmente isterica. «Odiami per quello che sono, non per quello che non sono», replicherà a Bloom, che ne stila un ritratto rovinoso nel suo memoir del 1996, Leaving a Doll’s House.
Ma anche la dedizione al lavoro («Malamud scrive già da due ore», lamentava Roth chiudendosi nello studio alle 9 del mattino), le accuse di antisemitismo («Cosa si sta facendo per zittire quest’uomo?», tuonò il capo del Consiglio rabbinico d’America ai primi racconti controversi: «Gli ebrei del Medioevo avrebbero saputo cosa fare»), la malattia e le crisi depressive, la meticolosa ricerca di una lapide (un masso appena abbozzato, nello spirito di quella di Camus, su cui fece incidere in modo irregolare Philip Roth 1933-2018), il Nobel agognato e mai ricevuto («Dylan va bene», ironizzò quando nel 2016 il riconoscimento andò al cantautore di Blowin’ in the Wind, «ma l’anno prossimo spero lo diano ai Peter, Paul and Mary», riferendosi al trio folk anni Sessanta). Negli ultimi anni, Roth si trascinava dal suo appartamento dell’Upper West Side di Manhattan al vicino Museo di Storia naturale sostando su quasi ogni panchina, inclusa quella, di proprietà del museo, con accanto la colonna con incisi i nomi dei Nobel americani. «Diventa ogni anno più brutta», dirà a un amico. «L’hanno messa lì per farmi incazzare».
Particolarmente toccante il racconto degli ultimi giorni. L’ultimo compleanno, l’ultima visita di Lisa Halliday, l’ex compagna di molti anni più giovane che raccontò la loro storia nel romanzo Asimmetria (Feltrinelli, 2018), e della cui bambina, Stella, Roth faceva circolare le foto orgoglioso come ne fosse il nonno. «Ho incontrato il grande nemico», dirà dall’ospedale al sodale Ben Taylor poche ore prima di morire: «Non c’è da aver paura».