Corriere della Sera, 29 marzo 2021
Cosa ci insegna il lockdown di Suez
La Ever Given, il gigantesco cargo incagliato nel canale di Suez, è – come il Covid-19 – un altro drammatico simbolo della fragilità del nostro mondo globalizzato e della nostra dipendenza da sistemi economici e sociali troppo complessi e troppo interdipendenti per essere governati.
Bastano un dito nell’ ingranaggio, un banale errore umano, un soffio di vento più forte e imprevisto, una tempesta di sabbia, per paralizzare una parte enorme delle rotte commerciali del pianeta. L’incagliamento della Ever Given non è soltanto un caso di cronaca di questi giorni, è il capitolo finale di una storia lunga più di un secolo, cominciata con un’idea ambiziosa di progresso che oggi sconta la grandezza eccessiva di questa ambizione.
Non ci vuole molta fantasia per paragonare il «gigante spiaggiato» come un dinosauro al «grande lockdown» imposto dalla pandemia che ha messo in ginocchio l’economia planetaria, paralizzato i trasporti, ucciso il turismo e che ci ha costretto a ripensare il nostro modo di vivere e consumare, di gestire i sistemi sanitari, di prevenire in modo più responsabile i rischi globali, di produrre e commerciare. Si è visto che le conseguenze di un’epidemia non sono circoscrivibili a una provincia cinese e nemmeno a un solo continente, così come la sabbia del deserto ha avuto effetti da Wall Street a Shangai, dalle fabbriche della Volkswagen ai grandi magazzini di Londra e di Tokyo.
La Ever Given è la metafora di un gigantismo insensato, rispetto alle possibilità del contesto naturale e organizzativo. Gli incidenti del genere in mare si ripetono con puntualità impressionante e sono spesso causati dalle difficoltà di manovra di navi di queste dimensioni, soprattutto se le condizioni climatiche sono sfavorevoli.
Una nave di 400 metri di lunghezza e 59 di larghezza, che può trasportare fino a ventimila container, si è messa di traverso, con conseguenze catastrofiche. Da giorni ci sono centinaia di navi in attesa di transitare. Tecnici ed esperti arrivati dall’Europa cercano una soluzione che non sembra essere veloce. I rimorchiatori attendono alla fonda.
Alcuni comandanti hanno deciso di riprendere le rotte antiche e pericolose del capo di Buona Speranza. Dal canale di Suez passa il dieci per cento del traffico marittimo mondiale. Il blocco ha fatto salire il prezzo del petrolio. Nei container ci sono prodotti alimentari (per lo più italiani), merci di vario genere, componenti per l’industria, macchinari. Le perdite sono calcolate in 400 milioni di dollari all’ora.
Eppure un disastro del genere era prevedibile.
Sono una settantina gli incidenti avvenuti nel Canale negli ultimi dieci anni, nonostante i lavori di allargamento che hanno agevolato il traffico e incrementato i profitti dell’Egitto, proprietario del Canale dopo la nazionalizzazione decisa dal presidente Nasser, nel 1956.
Quella decisione provocò un primo blocco, imposto da Gran Bretagna, Francia e Israele. Fu la prima crisi di Suez, che oltre a paralizzare i commerci fece salire la tensione fra le grandi potenze. Il secondo blocco, nel 1967, fu la conseguenza del conflitto fra Egitto e Israele. La guerra durò sei giorni, ma i danni paralizzarono il Canale per diversi anni. Oggi il blocco non è politico o militare. È naturale.
I lavori del Canale cominciarono nel 1859, ma l’idea fu concepita molti anni prima da Napoleone Bonaparte, nel corso della spedizione in Egitto. All’ambiziosa opera, sostenuta dalla Francia di Napoleone III, contribuirono anche imprese, migliaia di operai e due ingegneri italiani, Luigi Negrelli e Pietro Paleocapa. Il generale Alberto La Marmora pubblicò interessanti studi tecnici sulla geologia del deserto e sulle condizioni in cui le navi sarebbero transitate. Forse andrebbero riletti.
Il successo dell’impresa si deve a Ferdinand de Lesseps, il ministro plenipotenziario francese che riuscì a raccogliere i capitali per la società che avrebbe poi cominciato gli scavi. Lesseps pensava in grande e amava l’Egitto. Progettò anche il canale di Panama, ebbe l’idea di un tunnel nella Manica, rotte commerciali che avrebbero avvicinato i continenti. Non si chiese, per usare le parole del grande studioso Yuval Harari, «fino a che punto possiamo ancora comprendere gli sviluppi globali e distinguere l’errore da ciò che è corretto».
La prima nave italiana che attraversò il Canale, il mercantile Maddaloni, era comandata dal generale Nino Bixio, il quale – dopo le gloriose imprese con i Mille – si avventurò nei mari del Sud, con il proposito di aprire nuove rotte commerciali. Bixio sperava di portare il Marsala e le arance di Sicilia in Indonesia, ma morì di colera, nella sfortunata spedizione militare contro la ribellione islamica di Aceh, nel Nord dell’isola di Sumatra. Il colera lo colpì a tradimento, decimò l’equipaggio e mise fine alle sue ambiziose visioni. Anche Bixio ebbe un incidente, attraversando il Canale. Ma il Maddaloni era di dimensioni modeste: non bloccò il traffico e il generale se la cavò con una multa. Ma non sconfisse il virus.