Fraser, non c’è generazione che non abbia visto almeno una volta “I dieci comandamenti”.
«È vero, almeno qui in America. È come Il mago di Oz o La vita è meravigliosa . Ho visto il restauro in anteprima, mi ha lasciato senza fiato, sembra di entrare nello schermo, di salire sul cocchio del faraone, di correre per il deserto.
DeMille lo girò in Super Wide Double 35 mm, credo fosse un formato Vistavision, quindi potevi apprezzarlo solo sul grande schermo. La nuova risoluzione è la più alta disponibile al momento».
Si celebra il grande cinema in un periodo durissimo per le sale...
«La buona notizia è che qui in California i cinema stanno riaprendo dopo esattamente un anno di buio. Certo, ancora pochi e con rigido distanziamento, capienza al 25 per cento e così via. Ma è un buon segno. La gente ha voglia di tornare al cinema, alla sua magia».
Che rapporto aveva suo padre con “I dieci comandamenti”?
«Un rapporto strettissimo, perché fu il film che senza dubbio lanciò la sua carriera, almeno a livello internazionale. Quel film lo fece conoscere nel mondo. Papà, grazie a Mosè, divenne un divo a tutti gli effetti».
Un set complesso, DeMille ebbe un attacco di cuore sul set.
«È vero, in Egitto, colpa dello stress e del caldo al quale non era abituato. Mio padre teneva un diario delle riprese, che io conservo, e c’è un capitolo sulla loro spedizione in jeep nel deserto del Sinai. Passarono la notte nel monastero di Santa Caterina e l’abate spiegò a DeMille e a mio padre in che modo Mosè avrebbe dovuto scendere a piedi scalzi nel Sinai. Loro ascoltavano e ritoccavano il copione in base a quelle indicazioni. Poi scrive che per le scene dell’esodo vennero usate tutte comparse locali e quando papà, nei panni di Mosè, le guidava nella scena dell’esodo, lo guardavano e esclamavano “Musa, Musa!” perché in lui vedevano il profeta ammirato da tutti, ebrei, musulmani e cristiani».
Com’era suo padre, sul set e fuori?
«Da attore era il massimo della professionalità. Si preparava come per un esame, sempre puntuale, affidabile, preciso, disciplinato. I registi si fidavano. Studiava con passione, DeMille gli aveva insegnato l’impegno. Prima delle riprese di Ben-Hur si esercitò per tre mesi con le bighe. Come padre è stato meraviglioso, con lui ho fatto mille viaggi e vissuto mille avventure. Era attaccato alla famiglia, innamorato di mamma Lydia e di noi figli, mia sorella ed io. Era un uomo tenero, molto meno severo dell’immagine che dava di sé sullo schermo».
Il suo cognome le ha portato più vantaggi o più svantaggi?
«I vantaggi hanno sempre superato gli svantaggi. Certo, a Hollywood è facile essere giudicati dal cognome, nel bene e nel male. Non nego di essere stato un privilegiato, sono cresciuto in una casa magnifica, circondato da persone brillanti in un ambiente stimolante. Forse lo svantaggio di essere figlio di Charlton Heston è in quel vivere una sfida perenne, sentire di dover dare sempre il massimo».
Suo padre frequentava i colleghi o si teneva fuori da Hollywood?
«Gregory Peck e Kirk Douglas erano grandi amici di papà. Io andavo a scuola con Peter Douglas, uno dei figli di Kirk, eravamo come fratelli. La nostra casa era piena di divi ma papà diventava subito amico, che so, del giardiniere, del muratore che stava rifacendo la guest house. Gli piaceva giocare a tennis, nel weekend organizzava dei tornei e tutti erano benvenuti, purché ci si divertisse. Papà sarà anche stato un fervente repubblicano e conservatore, ma il suo cuore era profondamente democratico».