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 2021  marzo 28 Domenica calendario

Biografia di Massimo Gramellini raccontata da lui stesso

Prevede già che nei commenti a questa intervista si scateneranno gli spiriti bipolari del nostro tempo: «Ci sarà chi urlerà che sono uno stronzo, un buono a nulla, un ciarlatano; chi controbatterà che non hanno capito niente, che la mia è una voce da ascoltare, a differenza della loro che non ha nulla da dire. Ogni mattina alle 7 e 30 succede la stessa cosa appena la rubrica che scrivo sul Corriere della Sera, il Caffè, viene pubblicata online. Sembra che per affermare il proprio punto di vista sia diventato necessario contrapporlo a quello dell’altro, almeno sui social. Credo sia stato Voltaire a dire che dovremmo essere capaci di nutrire dei dubbi, senza farci paralizzare dall’incertezza. Invece, siamo diventati insuperabili nel farci paralizzare dalle certezze».
Il giorno prima di incontrarlo a casa sua, a Roma, mi scrive di non spaventarmi quando lo vedrò: «Mi troverai influenzato e scatarrante, ma ho fatto il tampone un’ora fa e sono negativo». La febbre che in questo momento mi sembra gli faccia più paura è quella che sale online. «Non mi capita mai di scendere giù in strada e di sentir gente che mi insulta, come accade quotidianamente online. Finire in pasto al pubblico ludibrio della rete è un fenomeno tipico del nostro tempo. Nel mondo reale magari le persone vorrebbero sbranarsi allo stesso modo. Però, le regole della convivenza glielo impediscono. E sapere che esiste ancora al mondo un po’ di sana ipocrisia è un sollievo. Se la vita vera fosse come quella che si vive online ci sarebbero risse a ogni angolo di strada, episodi di guerriglia urbana nei centri commerciali, gli uffici postali dovrebbero essere presidiati dai caschi blu dell’Onu. Sarebbe un inferno».
Sapevo che Gramellini era un lettore di Carl Gustav Jung, l’iniziatore della psicoanalisi del profondo. Mi racconta che per alcuni anni è stato in analisi con un junghiano, «allievo del padre di Emanuele Trevi, un pioniere della materia». Non sospettavo però il suo interesse per il pensiero esoterico. «Questo è l’angolo della mia libreria dedicato all’esoterismo» dice, cercando un libro di un autore di cui mi ha parlato, Georges Ivanovič Gurdjieff. «Franco Battiato l’ha studiato molto. Deve a lui l’idea del centro di gravità permanente. Io l’ho conosciuto grazie a Jovanotti. Sostiene che noi uomini siamo veramente noi stessi solo quando siamo completamente immersi in quello che stiamo facendo nel momento preciso in cui lo stiamo facendo. In tutti gli altri momenti in cui ricordiamo il passato, oppure fantastichiamo il futuro, siamo vissuti da un’entità esterna che in realtà ci governa. Oggi è un concetto alla moda, ma rimane un’esperienza che, quando si traduce in parole, dice sempre meno di quel che veramente è. Una prova della sua validità l’abbiamo avuta durante la pandemia. Quanto siamo riusciti a stare nel presente, in quello che succedeva, anziché dedicarci col pensiero a quel che verrà, o a quello che non è più? Non guardarmi così. Nemmeno io ci riesco per più di trenta secondi al giorno. Però Gurdjieff scriveva che ciò che ti fa bene non è il risultato, ma lo sforzo per raggiungerlo».
Durante quest’anno, Gramellini è andato nel futuro sino al dicembre del 2080 per scrivere C’era una volta adesso (Longanesi), un romanzo che racconta questi mesi dal punto di vista di un vecchio che ricorda cosa è stato viverlo da bambino.  

Due anni fa sei diventato padre, perché hai scritto da figlio?
In realtà, il vero protagonista non sono io. Con me e mia moglie Simona vive anche suo figlio di nove anni, a cui sono molto legato. Quando ha capito che avrei dato la sua voce a quella del protagonista, mi ha detto: “Guai a te!” Poi se n’è fatta una ragione: ormai ha capito che vivere in casa con due scrittori è una iattura. 
Ipotizzo fosse perché diventare padre non fa smettere di essere figli.
Se intendi dire che essere padri ti fa smettere immediatamente di porre te stesso al primo posto posso confermare che è successo anche a me. Mio padre è cresciuto durante la guerra, aveva sempre paura che io non mangiassi. Noi oggi, invece, siamo ossessionati dal dolore. Una parte di me già si preoccupa di come proteggere mio figlio da qualsiasi cosa possa fargli male. Anche se un’altra parte sa che il dolore è una condizione inevitabile della vita e che sperimentare è il miglior modo per imparare a non farsi travolgere.  
Cosa ti ha reso così diverso da tuo padre?
Mentre aspettavo la nascita di Tommaso, ho letto “Il codice dell’anima” di James Hillman. Hillman dice che noi non siamo fatti solo dai cromosomi che abbiamo ereditato dai nostri genitori, né dall’ambiente che ci ha formato – che, naturalmente, sono molto importanti. Ognuno di noi, sostiene, ha dentro un daimon, un demone, parola che per i greci aveva un’accezione positiva. Riuscire a riconoscerlo e, soprattutto, a seguirlo è ciò che fa di una persona indiscutibilmente quella persona, e non un’altra. Credo sia grazie a lui che ognuno di noi è diverso dai suoi genitori. E questo spesso i genitori fanno fatica ad accettarlo.
Anima, demoni: potrebbero sembrare discorsi strani.
Colpisce, piuttosto, che questi concetti siano totalmente esclusi dal dibattito pubblico, pur non essendo meno seri e rilevanti per la vita delle persone di molti altri di cui si parla in continuazione. L’intellighenzia illuminista crede solo nei cinque sensi, si spinge al massimo sino a considerare accettabile un autore come Jung, più in là non va.  
E cosa c’è più in là?
Stati che si sperimentano interiormente, ma sono difficili da tradurre in parole. In questi anni, è diventato comune sottolineare il momento presente, fino a farlo diventare una réclame pubblicitaria. Ma cosa vuol dire realmente non essere nel passato e nel futuro? Vuol dire essere fuori dal flusso del tempo, al di là delle regole dell’inizio e della fine. In altre parole, nell’eternità. È per questo, dice Jung, che l’anima non ha paura della morte. Il corpo ha paura – perché appartiene al tempo. La mente ha paura – perché appartiene al tempo. L’anima, invece, no. 
Cos’hai contro il sistema illuminista?
Niente. Considero, però, il cogito ergo sum di Cartesio la frase più truffaldina della storia. Noi siamo, al contrario, proprio quando non pensiamo, quando non rimuginiamo, quando non ci facciamo asfissiare dai pensieri. Ognuno di noi ha dentro una voce, alla quale sono stati dati vari nomi. A me piace chiamarla intuizione, certamente non è verificabile con nessuno dei cinque sensi. È quella che ti dice: ‘Attento, questa persona che ti attrae ti farà molto male, lascia stare’. Parla piano, questa voce. Può facilmente essere sommersa dai rumori di fondo. Di cui a volte ci serviamo per soffocarla. Eppure c’è. Io l’ho sempre sentita nella mia vita. Poi, non l’ho quasi mai ascoltata. Ma questo è un altro discorso.
Dove stai andando?
Ti faccio vedere una cosa. Dovrebbe essere qui. Vediamo…. ecco, guarda: era già tutto in questi libri.
“Platone. Le opere complete”.
Un filosofo del Novecento diceva che tutta la storia della filosofia non è nient’altro che è una serie di note a margine su Platone. 
Popper, invece, dice che Platone ha inquinato tutta la filosofia politica.
Con cosa?  

Con l’idea che devono governare i filosofi, da cui nasce il germe della dittatura.
Dico solo che, nel discorso che stiamo facendo, è utile ricordare che Platone sosteneva anche che, prima di governare gli altri, devi essere riuscito a governare te stesso. È passato, invece, il concetto che basta cambiare i gruppi al potere per cambiare il potere stesso. Salvo poi ritrovarsi con i nuovi arrivati che hanno gli stessi difetti di quelli che hanno scacciato. Anche Tolstoj diceva che ‘gli uomini passano la vita a cercare di cambiare il mondo e non si occupano mai di cambiare se stessi’. Per questo il mondo non cambia mai. 
Tu come sei evoluto?
Evoluto è un parolone. Ho perso mia madre da bambino e, quarant’anni dopo, ho scoperto che si era suicidata. Ci sono poche cose nella vita che costituiscono un verdetto inappellabile come la perdita della madre. Sono diventato un gran tifoso del Toro perché mio padre ha cominciato a portarmi ogni domenica allo stadio. Per un po’ non parlavo. Il calcio era rimasto l’unico canale di comunicazione tra di noi. Questa vicenda l’ho ripercorsa per scrivere un romanzo, “Fai bei sogni”, grazie al quale ho scoperto che l’Italia è un Paese in cui ogni storia, dalla politica alla magistratura, viene tinta di giallo, ma quasi mai si raccontano i misteri familiari. Mi hanno scritto in così tanti per raccontarmi le storie che hanno scoperto, e che qualcuno gli aveva nascosto, che ho avuto l’impressione che molti in Italia vivano nascondendo la verità alle persone più care che hanno. 
Perché ti danno del buonista?
Buonista è colui che finge bontà per captare la benevolenza altrui: io non credo di rientrare nella definizione. So far male, con le parole. E mi è capitato, a volte, di essere cattivo. È che per me le persone potenti di cui scrivo non sono davvero reali. Sono come i personaggi dei fumetti. Ogni volta mi stupisco quando si arrabbiano per una mia battuta. Come se si arrabbiassero Minnie o Topolino. Devo ammettere però che negli anni Ottanta-Novanta, quando ho cominciato io, ci si prendeva tutti molto meno sul serio.
Oggi?
Oggi non si può dire più niente che subito qualcuno si offende. Leggevo la notizia del carro armato che, a Pordenone, ha sbagliato mira e ha centrato un pollaio, facendo una strage di galline. Pericolosissimo parlarne. Se fai una battuta sui militari, si offende l’esercito. Se ironizzi sulle galline, ti trovi gli animalisti sotto casa. È lo spirito del nostro tempo. Guia Soncini lo chiama “L’era della suscettibilità”. 
Ti è mai capitato di non scrivere qualcosa per evitare la reazione?
Una volta, sui social mi hanno riempito di insulti perché nelle prime tre righe di un pezzo avevo scritto – maldestramente, lo ammetto – una premessa che, poi, nel resto dell’articolo ribaltavo. Online, però, si poteva leggere solo l’inizio. E questo ha fatto credere che io pensassi una cosa che, in realtà, non pensavo. La conseguenza non è stata piacevole. Mi hanno massacrato. Da allora scrivo e, dopo un’ora, mi rileggo provando a indossare il pregiudizio di un altro. E soprattutto ho smesso di fare premesse. 
Ma qual è il confine tra questa attenzione e l’autocensura?
Il confine è sottile, mi rendo conto. Ci sono delle volte in cui, semplicemente, reputi che sia più importante quel che vuoi dire e lo dici accettando il rischio.
Cominciare dal giornalismo sportivo ti ha aiutato?
Il giornalismo sportivo mi ha insegnato a scrivere anche intorno al nulla. I calciatori spesso scappano dai giornalisti. Mentre i politici gli corrono dietro. Durante i mondiali di Italia 90, per esempio, seguivo Gianluca Vialli. Peccato, però, che Vialli fosse in silenzio stampa. Mi chiamavano dal giornale e mi chiedevano “settantacinque righe su Vialli”. “Ma è in silenzio stampa, come ieri”, dicevo. “Va bene, allora facciamo settanta”. In qualche modo dovevo cavarmela.
Soffrivi e basta?
No. Lo sport ti mette a contatto con i sentimenti estremi. Le imprese, le cadute, la vittoria, la sconfitta. È esaltante. Una delle cose più belle che mi siano mai capitate è stato Maradona. Ero stato inviato a Napoli a seguirlo. Non si allenava da settimane. Arrivò in campo a Soccavo. Noi tutti lì ad aspettarlo. Si avvicinò e mi disse: “Mi dai un mandarino?”. (Ne stavo mangiando uno). Lo prese e si mise a palleggiare. Nel frattempo, col mandarino che saltellava ai suoi piedi, rispondeva alle domande. Mezz’ora: palleggi col mandarino e domande. Non era tanto l’abilità tecnica. Prova a tenere la gamba così per cinque minuti. Vedrai che ti farà male. Voleva dirci una cosa precisa: “Ci sono ancora, stronzi”.
Mi racconti come nacque Buongiorno, la rubrica sulla Stampa?
Ero a Specchio, il supplemento del quotidiano. Dissi al direttore, Marcello Sorgi, che volevo tornare a scrivere sul giornale. Lui mi chiese: ‘Ma cosa ti piacerebbe fare?’. Risposi, sapendo che era una cosa impossibile: “Un corsivo che inizia e finisce in prima pagina”. Lo aveva fatto l’Unità con Michele Serra e, prima ancora, con Fortebraccio. Sui giornali generalisti non era mai avvenuto. 
Lui, però, ti disse sì.
Andai subito nel panico. L’avevo buttata lì. Invece mi ritrovai con un: ‘Proviamo’. La prima rubrica la inviai che non avevamo ancora trovato il titolo. Mi telefonano alle otto di sera e mi dicono: ‘Ma come la chiamiamo?’. Io ero col cane fuori e rispondo: “Mah… potremmo fare… che ne dite di aiuola?”. Cominciamo a buttare lì nomi a casaccio. Finché arriviamo al momento Battisti, il momento della disperazione: “Pensieri e parole. Il mio canto libero”. Alle undici meno cinque pensiamo di pubblicarla senza titolo. Alla fine, Sorgi le dà quel nome che è lì da 25 anni. 
Hai avuto un modello?
Da ragazzo i miei miti erano Gianni Brera e poi Indro Montanelli. Mio padre teneva i suoi libri in vetrina perché non prendessero polvere. Credo di aver letto tutto quello che ha scritto, in alcuni casi più e più volte. Tentavo anche di imitarlo. Con risultati ovviamente disastrosi. 
L’hai conosciuto?
Di persona mai. 
Allora come?
Molti anni dopo, quando già lavoravo. Una volta mi telefonò per complimentarsi per un articolo che avevo scritto. Mi disse: “Sai, a me non piace scrivere editoriali, perché ci si deve mettere il mantello. Io, invece, detesto impaludarmi. Dovrebbero scrivere solo corsivi quelli come me e te”. Lui continuò a parlare per altri venti minuti. Ma io non lo sentivo più, avevo come un ronzio nelle orecchie: per me la telefonata era finita su quelle parole: ‘Quelli come me e te’.  
Fu l’unica volta che ci parlasti?
No, ce ne fu un’altra.  
Che ti disse?
Che negli articoli bisogna sempre mettere delle citazioni. Inventandosele, anche. 
Ma come?
Sì. Filologicamente è scorretto, ma giornalisticamente è efficacissimo.
Perché?
Perché è chiaro, mi disse Montanelli, che se un concetto lo esprimo io è una cosa. Se lo stesso concetto lo fai esprimere a La Rochefoucauld, be’, secondo lui è tutta un’altra storia. 
Sei sicuro che questa citazione sia vera?
Temo di sì.  
Perché temi?
Perché, purtroppo per me, non sono Montanelli.