il venerdì, 26 marzo 2021
Intervista a Max Pezzali - su "Max90. La mia storia. I miti e le emozioni di un decennio fighissimo" (Sperling & Kupfer)
A un certo punto di Max90 (libro sui Miti e le emozioni di un decennio fighissimo, Sperling & Kupfer, pp. 256, euro 19,90, uscita il 30 marzo), Max Pezzali ricorda una cosa che ha segnato la vita di molti di noi: le luci stroboscopiche in discoteca. "O per meglio dire quella strana illuminazione, credo in ultravioletto, che quando ti avvicinavi faceva vedere immediatamente la forfora sulle giacche. Per capirci, funzionava come le lampade al luminol, quello che usano in Csi".
Come dimenticarla? A lungo abbiamo pensato di essere gli unici ad avere quelle cataste di forfora sulle spalle, e invece era un dramma generazionale. In Lasciati toccare gli 883 portavano il loro eroe di provincia a ballare e forse a cuccare in uno di quei locali, con la musica "che spacca in due stomaco e cervello" e le luci ultravioletto a intermittenza. "Facevano un effetto tipo freeze frame, un attimo ti si vedeva, un attimo no, un attimo eri strafigo, un attimo un povero scemo" racconta Pezzali al telefono. "Era diabolico".
Al momento diabolica ci sembra la linea telefonica, iniziamo a chiacchierare di Max90 al quarto o quinto tentativo di connessione col cellulare; roba da rimpiangere il telefono che i suoi genitori avevano in duplex con una vicina di casa. Quando si erano trasferiti due numeri civici più avanti, racconta il musicista nel libro, lo avevano tenuto, e a lui ogni tanto toccava correre dalla vicina in ciabatte e pigiama per citofonare e chiedere di liberare la linea. "Se parli del duplex a un teenager di oggi, pensa che ti stai inventando tutto. E l’idea del libro è un po’ questa. Raccontare, partendo dai testi delle mie canzoni di allora, di oggetti, cose, sensazioni che mi riportano agli anni 90. I pomeriggi nelle sale giochi, i bivacchi nei bar di Pavia. In tasca solo un deca (la banconota da diecimila lire, ndr) che ti sentivi uno sfigato perché se ci facevi il pieno al motorino era già finito".
Di quei giorni e di quella mitologia della provincia che ora appare così paleozoica, gli 883, come ricorda anche Lodo Guenzi dello Stato Sociale nell’introduzione, sono stati una colonna sonora. "Era un’epoca diversa ma fondamentale, perché dopo tutto è cambiato".
Qualche mese fa ha pubblicato un album chiamato Qualcosa di nuovo, ora un libro che invece guarda indietro. Con nostalgia, tenerezza? Qual è il sentimento predominante?
"Lo stupore. Di quanto quel mondo fosse differente. Scrivevo e intanto mi chiedevo: ma come facevo allora? Come facevo ad arrivare alle feste a casa di dio se giravamo solo con il TuttoCittà? E ora se non mi funziona il cellulare, se con Google maps non riesco a girare per Roma, prendo e abbandono lì la macchina? Ecco, c’è lo stupore. E anche un po’ di tenerezza".
Per cosa?
"Per l’ingenuità che c’era. Ogni novità veniva salutata come una figata che avrebbe cambiato il mondo. Il video juke box! Era un oggetto retrofuturista, quando nel ’94 lo inserii nel testo di Senza averti qui pensavo di aver beccato lo spirito del tempo. E invece era nato già vecchio. Allora tutti guardavano Beverly Hills 90210 e sapevano tutto di Brenda, di Brendon... Oggi abbiamo accesso a un catalogo infinito di offerte, di serie, e alla fine non ci affezioniamo più a niente, ci stanchiamo subito. L’obsolescenza programmata dei prodotti è entrata anche nelle idee".
Ma essere giovani e sfigati in provincia, che non ti fanno entrare in discoteca perché sei vestito sbagliato, è ancora così?
"Il provinciale si è un po’ sprovincializzato, da quando c’è la rete. Per me era tutto immaginario, ti arrivava tramite la televisione, le riviste, e tu dovevi unire i puntini. Ora invece vedo ragazzi che anche se vivono a Pavia o in un paesino qua intorno, sanno quali sono le sneaker giuste. A noi i 30 chilometri per arrivare a Milano sembravano trentamila, credevi di essere alla moda e invece indossavi una cosa che andava due anni prima. Oggi questa cosa si sente meno, anche se il provinciale si sente sempre un po’ inadeguato di suo. È una cosa che si porta dentro. Con la pandemia però l’aria è cambiata".
Siamo tutti sulla stessa barca?
"Perché sempre più spesso sento amici che mi dicono ’possiamo venire a trovarti lì?’ e una volta non sarebbe mai venuto nessuno, una volta era il contrario: ’Max ma davvero devi rientrare a Pavia dopo la cena? Ma che sfiga’. Adesso invece vengono loro a trovarmi, perché c’è il Parco del Ticino qua dietro, sono ricomparsi i lupi dalle mie parti, l’airone cinerino, e quello che prima era uno svantaggio, cioè vivere in un luogo a bassa densità di popolazione e con tanta natura attorno, improvvisamente è diventato un plus".
Alcune cose invece non cambiano mai. Parliamo del chiodo.
"Per me non era un capo di abbigliamento, era un simbolo e lo è ancora. La giacca di pelle da ribelle come la portavano i Clash e i Sex Pistols, rigidissima, che non ci posso neanche andare a prendere un caffè perché non riesco a portare la tazzina alla bocca. Il punto, come capita a molti, è che ti trovi nell’età adulta senza essertene accorto. Il chiodo era il sogno di non adeguarsi mai al conformismo borghese, poi improvvisamente scopri che sei un conformista borghese come tutti gli altri. Le bollette da pagare, i colloqui con gli insegnanti di tuo figlio... Cosa ti rimane per aggrapparti un minimo alla tua identità precedente? A me è rimasto il chiodo".
E poi ci sono le spade, che non c’entrano niente con il Trono di Spade.
"Sono le pere di eroina, quelle di cui cantiamo nel ritornello di Cumuli. Parlandone con diversi amici dopo aver visto Sanpa su Netflix, mi sono reso conto che è difficile giudicare con gli strumenti di oggi un fenomeno così devastante. E in qualche modo più visibile. Perché le strade erano popolate di zombie, e nonostante si sapesse già quanto quella roba fosse mortale, nella tua comitiva di amici a un certo punto tre su dieci erano tossici. E ti chiedi: perché io no? La mia spiegazione è che avevo paura: non avendo abbastanza eroismo machista, non mi sono mai fatto".
A proposito di eroi, sono belli gli omaggi sparsi che dedica a Stan Ridgway dei Wall Of Voodoo.
"Non sapevo se fosse il caso di raccontare questa mia infatuazione. Tra Bruce Springsteen e Clash, metto anche lui che probabilmente nessuno conosce. Ma siccome questo è un libro e rimane, ho pensato che dedicandogli uno spazio, se anche solo una persona andrà a sentirsi Call of the West, ne sarà valsa la pena. È un mondo intero, una suggestione a cavallo tra la Los Angeles di Chandler, il deserto immaginario, le chitarre alla Morricone, e quella voce tra le più belle della storia della musica. Ridgway mi ha aperto il cuore, e mi ha introdotto al sogno americano già infranto".
Ora sappiamo cosa non le manca, per esempio il bip della segreteria telefonica...
"Mi metteva un’ansia da prestazione incredibile, dovevo sempre prepararmi il discorso prima, neanche dovessi presentare il Festivalbar".
Di cos’è che invece ha nostalgia?
"Fondamentalmente di due cose. Una è quella sorta di ottimismo di fondo che negli anni 90 si provava e che finì l’11 settembre. L’altra cosa che rimpiango è l’idea di oblio. L’assenza della rete permetteva di reinventarsi, ricostruirsi. Di non esserci. Esisteva il non apparire, non essere protagonisti. Per un sociofobico come me, era il paradiso. Oggi invece non c’è via di fuga, se ci provi subito ti dicono: ’Mi mandi la posizione?’".