La Lettura, 28 marzo 2021
I Vandali non erano vandali
Facciamo presto a dire «vandalo» per indicare chi devasta con furia e ferocia irrazionale. In fin dei conti seguiamo una scia, inaugurata il 10 gennaio 1794, nel corso della rivoluzione francese, dal vescovo Henri-Baptiste Grégoire che, per dare un nome al furore delle devastazioni iconoclaste, conia il termine vandalisme, vandalismo. Ma la scelta non fu a caso. Perché la leggenda nera dei Vandali aleggiava da tempo sull’Europa, legata alla memoria profonda di quel popolo crudele all’inverosimile per fanatismo e violenza.
Ma i Vandali furono davvero i più barbari tra i barbari? Proprio no, spiega Umberto Roberto nel suo Il secolo dei Vandali. Storia di una integrazione fallita (21 Editore). Furono, semplicemente, tanto barbari come gli altri. Con una storia, però, straordinaria, simile a un’epopea. Essi, infatti, espressero una civiltà che durò giusto un secolo, dal 429 al 534, tempo nel quale si affrancarono dall’autorità romana creando un centro di potere in Africa settentrionale, che si confrontava con un Occidente in piena disgregazione e con un unico, vero interlocutore politico: l’Impero di Costantinopoli.
Prima del loro arrivo in Spagna nel 429 le loro coordinate ci sfuggono. Più che un gruppo unico, i Vandali erano un coacervo di tribù di origine diversa, fatto non inusuale ma comune ad altre stirpi, come ad esempio i Longobardi. Insomma, non erano solo Vandali, ma Alani, Goti, Suevi. Un popolo in movimento che raggiunse la penisola iberica dopo avere attraversato la Pannonia e la Gallia. E che si strinse compatto intorno a un rex, un re, spiega l’autore, «non più semplicemente un capo religioso secondo la tradizione germanica, o un comandante militare in grado di gestire una situazione di pericolo», ma «il punto di aggregazione di un’intera popolazione che lotta per la sopravvivenza, per riconquistare la pace e una terra dove terminare il proprio viaggio». Gente cristianizzata, però nella dottrina ariana, secondo cui la natura divina di Cristo era inferiore a quella del Padre: tratto distintivo di un’alterità religiosa che aveva un chiaro intento di separazione rispetto alle popolazioni autoctone, per preservare l’identità e l’autonomia vandala da influssi pericolosi. Una «strategia di distinzione», la definisce Roberto, per proteggerli da un’assimilazione troppo fulminea, condizionata dalle popolazioni latine conquistate, maggioritarie e cattoliche.
La meta vandala, tuttavia, non fu la Spagna, troppo ostile per un popolo che contava a malapena 80 mila persone. Ma la regione nordafricana, tra le più ricche del Mediterraneo. Guidò i Vandali nella conquista un uomo di genio, gran condottiero, ottimo politico. Si chiamava Genserico. Lo scrittore goto Iordanes lo descrive così: «Di statura media, era zoppo per una caduta da cavallo; d’animo profondo, parco nel parlare, facile all’ira e avido di ricchezze. Era assai abile nel convincere le masse, preparato a diffondere l’odio». Con lui, un intero popolo attraversò lo stretto di Gibilterra. Donne, vecchi, bambini e guerrieri: quest’ultimi tra i 15 e i 20 mila. Un’eterogenea massa infoltita da liberi e schiavi provinciali di origine ispanica.
La traversata fu un’operazione logistica complessa, il cui spaccato organizzativo poco si addice ai nostri stereotipi sui Vandali. Furono necessarie diverse centinaia di navi da carico, confiscate ai Romani, capaci di trasportare cavalli e carriaggi. E tante navi da pesca, di minore dimensione. Un’operazione efficace e rapida, una specie di Dunkerque del V secolo che permise in pochissimo tempo a un popolo intero di raggiungere l’Africa, dove ci si aspettava una resistenza accanita da parte romana. Invece, contro ogni aspettativa, la marcia fu pressoché indisturbata e, nell’arco di un anno, furono percorsi 2 mila chilometri, fino alla ricca provincia di Numidia. Cadde Ippona, dove morì sant’Agostino. Cadde poi Cartagine, la più importante città mediterranea dopo Costantinopoli.
I Vandali, con la forza, avevano finalmente trovato un traguardo opulento, l’«anima dell’impero», l’Africa settentrionale. E si insediarono lì, a Cartagine e nelle aree circonvicine, attorniati da un mondo per molti versi distante e diverso, composto, in prevalenza, da provinciali romanizzati cattolici.
Da qui Genserico scatena una politica da grande potenza. Imprevista e inattesa. Diventa l’arbitro di vicende che avevano uno scacchiere molto più ampio di quello africano. Poi, un gesto eclatante. Nel 455 sbarca a Ostia con una imponente flotta e dà l’assalto a Roma. Non fu il colpo di mano di un pirata audace, ma un’impresa dal chiaro significato politico, pianificata con cura, a stabilire la supremazia sul mondo latino dei Vandali, popolo «fondatore di un nuovo regno, forte e indipendente dall’Impero romano», dice Roberto. Il sacco durò 14 giorni, dal 2 al 16 giugno e l’enorme bottino portato via, ricchissimo e carico di un valore simbolico senza pari, rappresentò agli occhi di tanti testimoni una translatio imperii da Roma a Cartagine, un passaggio di consegne che sanciva l’inizio di un’epoca nuova.
Finché regnò un sovrano geniale come Genserico, il dominio africano dei Vandali si rafforzò, aspirando perfino all’egemonia sul Mediterraneo centro-occidentale. Dopo di lui, però, le fragilità della sua creazione apparvero lampanti. I successori si rivelarono inadeguati al loro compito. L’integrazione con i Latini si rivelò un fallimento, con la pervicace e violenta discriminazione nei confronti dei cattolici e la difesa fanatica dell’arianesimo, «misura necessaria a delimitare il perimetro dell’identità vandalica». E la simbiosi si rivelò impossibile tra un popolo come quello vandalo, tenace ma isolato e minoritario, e la massa di gente della provincia, tra cui Mauri e Punici più o meno romanizzati. Con una contraddizione di fondo: che mentre la società si lacerava, l’economia africana avanzò, formando una delle poche sacche commerciali e produttive prospere dell’area mediterranea occidentale.
Quando le truppe del generale bizantino Belisario, inviate dall’imperatore d’Oriente Giustiniano, sbarcarono in Africa nel dicembre 533, bastò poco: i Vandali si trovarono soli, abbandonati dagli amici, ignorati dai provinciali. A Tricamarum, presso Cartagine, l’ultima, definitiva, coraggiosa e perduta battaglia. Nel marzo del 534 il regno era finito. E su di essi calò l’oblio, ma non la cattiva fama che continua ad accompagnarlo.