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 2021  marzo 28 Domenica calendario

14 aprile 1988, gli stragisti di Napoli

La sera del 14 aprile 1988 John Nichols, 23 anni, è di turno all’ingesso del circolo dei marinai americani di stanza a Napoli, controlla i passaporti degli avventori e, dalla sua postazione, assiste al via vai dei passanti su Calata San Marco; studenti, lavoratori, qualche ambulante, le automobili che si infilano in questa viuzza laterale ma strategica, tra il Porto e piazza Municipio. Un simile locale dell’Uso (United Service Organizations), spiega a «la Lettura» Nichols, «era considerato da noi militari all’estero un posto sicuro e amichevole, dove trovare cibo familiare, parlare inglese, vedere facce conosciute. E soprattutto telefonare». In tempi in cui una lettera dalla nave partiva in elicottero, la fila di cabine del circolo è meta ambitissima per poter finalmente chiamare casa. Quella sera, in più, si ritrova in Calata San Marco l’equipaggio della fregata «USS Paul», all’ancora nella baia, per una festa organizzata tra gli altri da Angela Simone Santos, 21 anni. «Aveva invitato anche me – ricorda l’allora coetanea Donna Cole – che ero appena arrivata in città. Una ragazza socievole, gentile. Mi colpì perché ancora non conoscevo nessuno. Esitai, poi le dissi che sarei andata a dormire. Non avevo smaltito il cambio di fuso orario». 
John, intanto, passa in rassegna documenti e fotografie, quando alza lo sguardo sulla via e nota un uomo dai tratti asiatici che parcheggia malamente la vettura proprio davanti al circolo. «Mi irritò perché mi sembrò molto scortese da parte sua ma non pensai che fosse un pericolo: la gente fermava le macchinine ovunque, anche sul marciapiede, e in effetti lì c’era posto». Arriva il turno di cena, e il marinaio Nichols si avvia verso il retro dell’Uso, che aveva anche dei piani inferiori, mette sul vassoio una bibita, le patatine, un cheeseburger («Ricordo ancora che buon odore») e torna sui suoi passi. 
Sono le 19.49 quando la Ford Fiesta parcheggiata male salta in aria: è carica di quasi 40 chili di «gelatina» (dinamite a base di nitrato d’ammonio), rafforzata da dadi e bulloni. Auto in fiamme, schegge di vetro, corpi sanguinanti, grida. Cinque morti, 21 feriti. «I miei ricordi si fermano lì», esattamente dietro al muro di cemento della hall che gli salva la vita. «Quando ripresi conoscenza, ero steso a terra». Qui s’avvia per John Nichols, come per decine di altri superstiti, una storia personale di depressione, matrimoni falliti, scoperta della sindrome da stress post-traumatico, cure e fatica. Aggravata dalla sensazione di essere rimasti vittime di una vicenda per qualche strana ragione completamente rimossa dalla storia collettiva. In Italia come negli Stati Uniti.
Il procuratore capo di Napoli, Giovanni Melillo, svela a «la Lettura» di avere appena deciso di aprire una nuova indagine su quella strage dimenticata, rimettendo in fila tutti gli elementi emersi negli anni.
L’ospite che non dormiva nel letto
Quattro giorni prima, il 10 aprile 1988, al bancone dell’agenzia Inter Rent Auto Travel dell’aeroporto di Capodichino, Napoli, si presenta un cliente. Ha i tratti asiatici, chiede in noleggio una vettura Ford e si presenta mostrando un passaporto di Taiwan a nome di Willy Liao. L’uomo si sposta all’Hotel San Pietro, in via San Pietro ad Aram, vicino alla Stazione Centrale. Al personale mostra lo stesso documento intestato a Liao e si ritira nella sua stanza, trascinando un borsone con le rotelle. Durante il soggiorno, ogni volta che rientra in camera, l’ospite riceve telefonate da una donna che si esprime in inglese. Le cameriere ricordano due dettagli bizzarri: lascia sempre il bagno immacolato e sembra non aver mai dormito nel letto. Il 14 l’ospite lascia l’hotel, la sera la sua Ford a noleggio esplode, uccidendo la sottufficiale della Marina Usa, Angela Santos («Quando esco all’aperto vedo il suo corpo già avvolto dalla bandiera», racconta Nichols); l’anziano venditore di collanine Antonio Gaezza, che gli americani avevano adottato con il nome di Popeye («Un ometto piccolo, sempre con le sue cianfrusaglie davanti all’Uso»); e i passanti Maurizio Perrone, 21 anni, Guido Scocozza, 24 anni, e Assunta Capuano, 31 anni. A loro si aggiungono 21 feriti, e decine di donne e uomini come John che ancora ricordano quella sera nei propri incubi.
Le indagini partono dai rottami della vettura detonata, quindi arrivano al misterioso signor Liao che ha lasciato le impronte sul contratto di noleggio. Le informazioni incrociate tra Digos e Fbi portano all’identità reale: si tratta del ricercato Junzo Okudaira (indicato con nome e cognome come nell’uso occidentale), nato nel 1949, membro dell’Armata rossa giapponese. Ha adoperato un passaporto rubato a Basilea nell’ottobre dell’86, ha già colpito a Roma nell’87 sparando razzi rudimentali contro le ambasciate di Stati Uniti e Gran Bretagna; prende ordini dalla famigerata Fusako Shigenobu, che è anche sua cognata. E ha agito in un giorno che ha un particolare significato: è il secondo anniversario del bombardamento statunitense su Tripoli, in Libia. Dunque è una ritorsione per conto di Muammar Gheddafi. Ma che cosa c’entrano, allora, i giapponesi? 
Studenti senza autocontrollo
Per capire chi fossero gli sparuti ma ferocissimi estremisti dell’Armata rossa bisogna tornare al movimento studentesco giapponese, spiega il decano degli iamatologi italiani, il professor Franco Mazzei, lo Zengakuren. L’organizzazione, nata all’indomani della tragedia delle bombe atomiche, si nutre di un profondo antiamericanismo e di nazionalismo, che dalla metà degli anni Sessanta in poi, però, prende pieghe molto aggressive. Mazzei, allora giovane professore all’Università di Tokyo, ricorda personalmente la pratica del kanzume, letteralmente «barattolo»: cioè «inscatolare» il docente in aula costringendolo a interrogatori serrati, se non a pestaggi. Una deriva violentissima, selvaggia, favorita da un’opinione pubblica solidale con gli studenti, in particolare nell’opposizione alla guerra al Vietnam e nella liberazione di Okinawa dalla base militare americana. «Non c’è l’autocontrollo nella cultura giapponese – spiega Mazzei —: tutto è subordinato al collettivismo, che antepone il bene della comunità all’interesse privato. In fase di anomia come erano quegli anni in Giappone, dunque, manca la capacità di gestire la libertà». I ragazzi si dividono in fazioni e si affrontano in scontri sanguinosi. Senza freni, con la polizia che da tradizione non entra nel «tempio sacro» dell’università, il movimento raggiunge estremi aberranti. Finché nel 1972 si scoprono a Nagano una base di addestramento e una fossa comune in cui è stata gettata anche una donna incinta al nono mese, giustiziata per «debolezza borghese».
È un’atrocità che dissolve il consenso e autorizza le forze di polizia a intervenire. Resta in campo solo un gruppuscolo di irriducibili, che si era già fatto notare per il dirottamento di un volo Japan Airlines sulla Corea, e che a questo punto abbraccia definitivamente la lotta rivoluzionaria clandestina e si trasferisce al seguito della leader Fusako in Libano: inizia l’era di sangue della Sekigun o Armata rossa giapponese. 
Il network dello «Sciacallo»
I terroristi partecipano al massacro all’aeroporto di Lod, in Israele (1972), quindi a prese di ostaggi. Si sviluppa una saldatura importante con il Fronte di liberazione popolare della Palestina di George Habbash. E una rete sempre più fitta di rapporti «rivoluzionari» internazionali.
Per unire i puntini bisogna spostarsi avanti e indietro negli anni. Il 12 aprile 1988, due giorni prima della strage di Napoli, nel New Jersey viene arrestato Yu Kikumura, altro «samurai rosso»: doveva far detonare ordigni in concomitanza con l’attentato in Italia. Interessante il profilo: a partire dall’84 il terrorista, con il nome di battaglia di Abu Shams, è in un campo d’addestramento nella valle della Bekaa, in Libano. Con lui c’è Okudaira, che si fa chiamare Youssef, mentre Fusako, la regina, detta Mariam, si limita a qualche ispezione e preferisce vivere a Damasco, in Siria. Una talpa dell’Fbi – forse un membro del gruppo armeno Asala – racconta che i due si addestrano all’uso di esplosivi, ma annota anche che sono pigri e bevono molto. Okudaira sembra «più vecchio della sua età» e va a dormire molto presto. Osservazioni che non ne sminuiscono il ruolo. 
La permanenza nella base guerrigliera coincide con la decisione di Fusako di riprendere la lotta armata in grande stile. È lei stessa ad annunciarlo nell’85 in un’intervista a un quotidiano di Beirut. Precisa che si muoveranno su un fronte internazionale, possibile che riattivino i vecchi contatti, le complicità costruite negli anni con la rete di Carlos, le «amicizie» italiane e i servizi segreti di Paesi arabi. Su questa pista, lasciano intendere gli inquirenti, si sta muovendo anche la nuova indagine napoletana. La rete dello «Sciacallo», in particolare.
I giornalisti sono affascinati da Fusako Shigenobu, donna attraente e decisa. Che si è legata alla resistenza palestinese e ha avuto una relazione con un fedayn importante, unione dalla quale è nata una figlia, May. Citiamo l’aspetto fisico come elemento d’inchiesta. Testimoni a Napoli, uomini in particolare, ricordano di aver visto un’asiatica molto bella con Junzo: era Fusako? 
Un processo frettoloso a Napoli, all’indomani dell’attacco, ha condannato in contumacia all’ergastolo il solo Okudaira, che da anni ha fatto perdere le tracce. Se è vivo, secondo una ricostruzione potrebbe essere in Perù. Per il procuratore Melillo resta in cima alla lista dei ricercati locali, prima anche di latitanti della camorra. Shigenobu è stata assolta per insufficienza di prove, tuttavia il sospetto resta, alimentato dal modus operandi dell’organizzazione e dagli interrogativi sulle complicità. Difficile pensare che Okudaira, arrivato il 10 aprile, abbia fatto tutto da solo. Chi gli ha fornito la «gelatina»? Dove ha preparato l’autobomba? Chi gli ha tenuto il posto davanti al circolo Usa verosimilmente usando un’altra vettura? Gli inquirenti napoletani hanno inviato in Giappone una rogatoria per interrogare al più presto Fusako in carcere (sarebbe tra l’altro gravemente malata).
La targa per ricordare
Rileggendo le carte e scavando negli archivi, è possibile oggi aggiungere elementi interessanti su una rete di supporto italiana. Il 2 febbraio 1988 un militante dell’Armata è intercettato a Fiumicino. Arriva da Tripoli, porta addosso circa seimila dollari: è un possibile corriere. Ancora a febbraio, Yu Kikumura è segnalato a Milano, dove acquisterà il biglietto per raggiungere prima la Francia, da lì gli Stati Uniti. Gli americani, dopo l’attacco in Italia, condurranno una lunga sorveglianza in Lombardia nella speranza di trovare tracce. Maggio 1988, la polizia giapponese cattura Yasuhiro Shibata. Ha con sé file in codice, emergono contatti con persone nel nostro Paese, si ipotizza che abbia ricevuto denaro da una misteriosa donna che vive a Milano. Non si esclude neppure che Shibata abbia avuto appoggi dagli 007 nordcoreani. Gli anni 1985-87 sono segnati da attacchi e incontri che vedono i giapponesi molto presenti in Europa. Si annoverano vertici in Jugoslavia, riunioni e relazioni con organizzazioni «sorelle». Shigenobu compare anche come agente della Stasi tedescorientale, nome in codice Bettina.
La procura con la Digos dovrà tornare su vecchi sentieri, alcuni difficili da seguire, altri ormai cancellati; riaprire questioni sepolte. Un investigatore parla di tasselli sparsi di un puzzle che forse dopo tanti anni si può provare a comporre. Nel frattempo, ancora per iniziativa del procuratore Melillo, per la prima volta sul luogo della strage, il prossimo 14 aprile, sarà apposta una targa. Se anche non si dovesse arrivare alla «verità», servirà comunque a rinfrescare la memoria e a rendere omaggio a cinque vittime dimenticate del terrorismo.