La Lettura, 28 marzo 2021
Le super potenze private
Chissà se Jeff Bezos conosce la storia della capra Kare. Dovrebbe. Si tratta di un fatto che si dice essere accaduto più o meno mille anni fa nella regione allora chiamata Dalarna, nella Svezia centrale, durante il regno di Olof Skötkonung (980-1022). Lo racconta – in un libro del 2012 intitolato Power, Inc. — David Rothkopf, un esperto di relazioni internazionali americano che fu sottosegretario durante l’amministrazione Clinton e poi managing director della Kissinger Associates. Un giorno, Kare sparì dall’ovile e vagò per i boschi attorno al villaggio di Falun. Quando tornò, aveva le corna rosse. Stupito, il pastore seguì a ritroso le orme della capra fino ad arrivare a una pozza con venature rosso ruggine.
È così – racconta la leggenda tramandata per secoli – che in Svezia fu scoperto il rame. Il luogo fu chiamato Stora Kopperberg, Grande Montagna di Rame. È lì che nacque quella che oggi è una delle più antiche imprese europee ancora in attività, Stora, diventata una ventina d’anni fa Stora Enso: «Una multinazionale con operazioni in più di 35 Paesi – scrive Rothkopf – un’importante ma non troppo conosciuta impresa che controlla un territorio pari alla metà del Belgio e realizza vendite annue maggiori del Pil di quasi cento Paesi». Di Stora si hanno notizie certe, scritte, almeno dal 1288, quando fu costituita, prima al mondo, in società per azioni.
Quel che può essere interessante per Bezos – e per tutti i boss delle maggiori multinazionali di oggi – è che, sin dall’inizio e nei secoli, la storia di Stora è un avvicendarsi di rapporti e di scontri con il potere politico: intrusioni frequenti della Corona svedese; riappropriazioni da parte dei privati; più recentemente, nel XX secolo, indagini antitrust avviate dalle autorità di Stoccolma; e, nei due decenni scorsi, problemi legali negli Stati Uniti e in Cina per la sua attività nel business del legname e un’accusa di utilizzo di manodopera giovanile in Pakistan. È un percorso che rivela quanto la relazione tra l’impresa e lo Stato, oggi al calor bianco tra le Big Tech e i governi, sia stata questione di potere sin dalla nascita della prima SpA: conflitti, bracci di ferro, sfide, ma anche accordi espliciti e sottobanco. Nei secoli, è la stessa storia di grandi società diventate lunga mano dello Stato, ma allo stesso tempo capaci di infiltrare e influenzare, quando non controllare, il governo di quello stesso Stato. Con esempi straordinari nell’epoca del colonialismo europeo: la Honourable East India Company e la South Sea Company britanniche, strettamente intrecciate al potere e alla monarchia nell’espansione in Asia e Africa; e la United East India Company nata dalla fusione di diverse entità voluta dal governo olandese che le garantì 21 anni di monopolio nel commercio delle spezie.
Oggi non è tanto diverso e una domanda turba premier e capi di Stato, top manager e intellettuali: ha più potere un gabinetto di governo o un consiglio di amministrazione?
Siamo in una fase nella quale alcune grandi multinazionali hanno assunto poteri che superano quelli dei governi in una serie di campi, compresa la vita dei cittadini, e suscitano apprensioni per la stessa qualità della democrazia; ma allo stesso tempo vediamo una reazione, accelerata durante la pandemia, da parte delle autorità – americana, cinese, europee – che in alcuni casi, anch’essa, provoca timori per le libertà. Il fatto è che la relazione tra Big Business e governi non è, nemmeno oggi, solo di collisione o di collusione: sono sempre vere entrambe le tendenze, sulla base dei rapporti di forza del momento. Con una qualificazione necessaria: un governo può essere infiltrato e corrotto da un interesse economico, ma alla fine, se si presenta il caso, il monopolio della forza è suo e con esso, almeno in teoria, sua è la parola finale. È una relazione tumultuosa che dura da secoli e sperabilmente andrà avanti secoli.
In parallelo alla globalizzazione e alle notevoli innovazioni tecnologiche degli scorsi decenni, alcune grandi imprese sono diventate ultrapotenti. Certamente in termini di muscoli industriali e finanziari. In un’analisi effettuata all’inizio della pandemia, nel marzo 2020, il settimanale «The Economist» stilò una classifica della resilienza di alcune Big: in testa c’erano Microsoft, Apple, Facebook, Cisco Systems, Alphabet-Google. Un anno dopo, queste sono tra le «vincitrici» della pandemia, alle quali si sono aggiunte almeno Amazon, Pfizer, AstraZeneca tra le più grandi, oltre a numerose piccole. Le imprese hi-tech e le farmaceutiche hanno segnalato di essere state essenziali nella gestione dei lockdown e nella produzione di vaccini. E questo ne aumenta il potere presente e futuro: anche nel rapporto con i governi, i quali è vero che in alcuni casi hanno sostenuto finanziariamente la ricerca dei vaccini, ma è altrettanto vero che hanno avuto bisogno delle famigerate Big Pharma in grado di svilupparli e produrli.
Il problema, però, non sta tanto nel fatto che, per dire, Apple abbia una posizione di cassa di quasi 200 miliardi di dollari, una cifra che non è lontana dalle riserve valutarie e in oro dell’Italia e superiore alle riserve di 178 Paesi su 194. E nemmeno che per Amazon oggi lavorino 1,2 milioni di persone e per la catena di distribuzione Walmart 2,2 milioni. O che in un anno tra i più difficili per le compagnie petrolifere il prezzo di un’azione della ExxonMobil sia salito da 41 a 57 dollari. La novità del XXI secolo è che una serie di imprese potenti è sconfinata in territori che erano storicamente esclusiva degli Stati. È una questione che riguarda in primo luogo le compagnie digitali, che hanno un accesso formidabile alle informazioni personali dei loro utenti e dispongono di un potere di controllo del dibattito pubblico, fino alla censura, che i governi non hanno.
Se a decidere di bandire Parler, la piattaforma favorevole a Trump, dai loro sistemi non fossero state Amazon, Apple e Google, ma un politico, un voto del Congresso, una sentenza della Corte Suprema, la reazione dell’opinione pubblica sarebbe stata fortissima. Invece, il passaggio è stato tutto sommato assorbito, da qualcuno come invitabile, da altri come legittimo. E gli episodi di persone bandite da Twitter e da Facebook per il contenuto dei loro messaggi, di destra o di sinistra, sono diventati frequenti. Ma possono Twitter e Facebook essere i «moderatori» della conversazione politica globale? Coloro che decidono che cosa si dice e come? Secondo Ben Wizner, un direttore della American Civil Liberties Union (Aclu), il problema non si porrebbe se Facebook avesse due milioni di utenti e non i due miliardi e mezzo che invece ha e non fosse diventata una piattaforma dominante nei dibattiti. «Dobbiamo usare la legge – sostiene – per evitare che le imprese consolidino quella quantità di potere sul nostro discorso pubblico. Non significa regolare i contenuti. Significa applicare le nostre leggi americane sull’antitrust».
Mentre era evidente come la East India Company londinese fosse un’impresa coloniale finalizzata a sfruttare le sue conquiste territoriali, in ciò spingendo l’espansione dell’Impero britannico, per le Gafam (Google, Amazon, Facebook, Apple, Microsoft; alle quali si può aggiungere Netflix) la questione è più complessa. Cercare di rimediare ai problemi che il loro potere solleva è delicato, per molte ragioni.
La prima è che godono di una reputazione piuttosto buona: offrono servizi spesso gratuiti o a poco costo, oppure opportunità che prima non esistevano. Per i governi è difficile ridimensionarle, anche con le tradizionali norme antitrust: non è dimostrato, anche se forse è così, che limitino la concorrenza o che tengano alti i prezzi come fanno di solito i monopoli. Raccolgono quantità immense di dati personali, i Big Data diventano il centro dei loro affari e naturalmente così facendo mettono in discussione la privacy. Ma molti utenti sono favorevoli allo scambio «i miei dati in cambio di servizi a basso costo», oppure sottovalutano il rischio, oppure ancora preferiscono che i loro dati finiscano nell’archivio di un’impresa piuttosto che in quello dello Stato. Per quel che riguarda la libertà di espressione, la questione è simile: è meglio che a stabilire se un’informazione è fake siano i tecnici di Mark Zuckerberg o i tecnici di Joe Biden e di Xi Jinping?
Sia per quel che riguarda la raccolta dei dati personali sia per quanto concerne la libertà di espressione, le Big Five hanno il potere di fare cose che ai governi (quelli democratici) sono vietate. Questo apre un conflitto che al momento vede diversi approcci da parte degli Stati. Quello utilizzato in Cina è il più semplice: le piattaforme occidentali sono bandite e i social network cinesi, a cominciare da Weibo, sono poderosamente controllati e censurati dal governo. Negli Stati Uniti sono aperte una serie di procedure, anche al Congresso, per valutare e in ultima istanza limitare il potere delle Big Tech. Soprattutto, per la via di norme antitrust innovate rispetto al passato, quando la questione della posizione dominante era diversa da quella di oggi. Le tendenze più radicali, a Washington, arrivano a chiedere il frazionamento dei grandi complessi privati e la limitazione della loro capacità di acquisire potenziali concorrenti prima che diventino minacce.
In Europa, la situazione è ancora più complessa. I governi e la commissione Ue stanno sviluppando leggi e norme tese alla protezione della privacy degli utenti e alla limitazione delle fake news, oltre che alla tassazione dei giganti del web. Qui la questione sta prendendo chiaramente la forma di uno scontro di potere nel quale gli Stati hanno l’obiettivo di tagliare le unghie alle grandi aziende hi-tech. Certamente, da Berlino a Bruxelles la preoccupazione per le violazioni delle privacy e per il propagarsi della disinformazione sono reali. Ma norme che sembrano tagliate sulle dimensioni e sulle caratteristiche delle Big Tech americane appaiono a molti come la frustrazione di un potere politico che reagisce con misure normative, di pura forza, perché non ha imprese europee da contrapporre ai giganti Usa.
A ben vedere, il conflitto tra Stati e imprese è simile ai conflitti del passato: l’egemonia americana viaggia sulle ali delle Gafam come l’egemonia britannica correva sulle onde sollevate dalla East India Company; ma chi si sente colonizzato reagisce con quel che ha e anche in patria i colossi hi-tech hanno sempre più avversari, così come Robert Clive, primo governatore del Bengala a nome della Corona britannica, si creò nemici a Londra. Ogni potere, pubblico e privato, avanza per accordi, compromessi, conflitti, vendette.
Lo scontro e certe volte l’incontro tra Big Business e governi oggi non sono limitati alle aziende tecnologiche. Per decenni, le grandi compagnie petrolifere si sono mosse come se fossero Stati, non tanto in casa quanto nei luoghi di estrazione: con apparati diplomatici in proprio, unità di intelligence e in alcuni casi addirittura con milizie. Ancora oggi, sono più potenti di molti dei governi, ad esempio africani, con i quali fanno affari. E quanto sono influenti le grandi banche con reti globali? Quella del rapporto della finanza privata con i governi e con le autorità monetarie è un’area nella quale il confronto è pressoché quotidiano sui mercati, con i grandi investitori che testano le intenzioni delle autorità e le autorità che cercano di addomesticare – accontentandoli o minacciandoli – gli investitori. E quanto potere acquista una banca in un Paese povero quando gli organizza un prestito internazionale? Probabilmente troppo: una delle istituzioni più blasonate di Wall Street, Goldman Sachs, ha per esempio da poco accettato di pagare cinque miliardi di dollari come penalità per essere finita in un grave scandalo di corruzione in Malaysia.
Dopo la pandemia, alcune delle Big Pharma miglioreranno la cattiva reputazione che le accompagna e, grazie ai successi nello sviluppo dei vaccini, prenderanno posizioni di maggiore forza nei confronti dei governi, con i quali hanno intrecci stretti da sempre, per la determinazione dei prezzi, che però negli ultimi tempi si stavano deteriorando a causa di scandali.
Non solo. I privati stanno entrando a gran velocità in altri settori finora riserva degli Stati. Nell’emissione di valute, in forma digitale. Nella costruzione di nuove armi per la guerra cibernetica. Nella verifica delle identità. Nella colonizzazione dello spazio. Decidono gli amministratori nei potenti board e non i deputati nei parlamenti. Soprattutto quando scienza e tecnologia corrono più della politica.
L’avanzata del Big Business in territori storicamente non suoi non è una marcia incontrastata. La crisi da virus sta anzi esaltando l’attivismo dei governi. I quali non si limitano a mettere in campo pacchetti di stimolo economico mai visti. In parallelo, disegnano nuove politiche industriali attraverso le quali diventano maggiormente interventisti in economia, anche con acquisizioni di imprese come non succedeva dagli anni Ottanta. Sostenuti, oltre che dalla necessità di superare la recessione da Covid-19, dalle evoluzioni della geopolitica e dal nuovo confronto tra le potenze che chiama ed esalta il ruolo degli Stati. In Cina, finché dura l’egemonia assoluta del Partito comunista, la soluzione del conflitto tra Stato e impresa è lineare: il fondatore di Alibaba, Jack Ma – l’imprenditore cinese più famoso, più ricco e diventato troppo potente – è stato ridimensionato in poche ore dal presidente Xi Jinping. Nei Paesi liberali è fortunatamente più difficile la risoluzione drastica dei contrasti. Meglio conflitti e concorrenza tra imprese e governi che il modello di Pechino. Continueremo così, tra tensioni, passi indietro e passi avanti ora dello Stato ora del privato. È una lotta che non avrà un vincitore e forse è un bene: in fondo, è un motore che funziona sin dal giorno che la capra Kare si fece le corna rosse.