Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2021  marzo 28 Domenica calendario

Intervista a Edoardo Bennato

“Muoviti muoviti. Muoviti muoviti, facci sentire un’altra musica, una nuova canzone”: c’erano lunghe estati calde in cui mettevi cento lire nel juke-box e quasi sempre quella che suonava era una canzone di Bennato. Ti poteva dare forza: “Dalla cucina una voce cara/ mia madre che/ mi dice: non farti cadere le braccia, corri forte/ vai più forte che puoi”. Quante volte ce lo siamo detti in questo periodo: “Non devi voltare la faccia/ non arrenderti né ora né mai”. Ti poteva far sentire arrabbiato: “Un giorno credi di essere giusto/ e di essere un grande uomo/ In un altro ti svegli/ e devi ricominciare da zero”.A volte c’era amarezza: “Raffaele è contento/ non ha fatto il soldato/ ma ha girato e conosce la gente/ e mi dice: stai attento/ che resti fuori dal gioco/ se non hai niente da offrire al mercato”. Altre volte invece ti poteva cullare: “Seconda stella a destra/ questo è il cammino/ e poi dritto, fino al mattino…”. Storie di ieri. Eppure quando le ascolti è come se fossero di un minuto fa. E quella eco è così forte che la senti non appena prendi Robinson in mano, alla riga sotto la testata dove appare un veliero, vento in poppa e la scritta “L’isola che c’è”.Ma il nuovo album invece si intitola “Non c’è”: quell’isola è scomparsa per sempre?«In Non c’è ho messo insieme vecchie canzoni rifatte e pezzi nuovi come quello che gli dà il titolo. L’ho fatto perché mi sembrava che alcune delle vecchie canzoni parlassero di oggi, il che però, più che farmi dire “Guarda come sono stato preveggente!” mi faceva sentire a disagio. Mio fratello Eugenio che spesso è quello che mi istiga mi ha detto: “Devi fare un pezzo cattivo!”. Ed è venuta fuori Non c’è: mi è venuto in mente ripensando a quando, proprio dopo che avevo scritto Non farti cadere le braccia, la Ricordi mi licenziò. Era il 1973».E tu come reagisti allora?«Andai a suonare per strada».Quello era il famoso disco con in copertina un solo fiammifero: l’ultima speranza…«Il direttore artistico mi disse: “Sì, Bennato, saranno anche belle queste canzoni, noi infatti l’abbiamo messo il disco nei negozi (imita l’accento milanese, ndr) però quelli della Rai hanno detto che hai una voce molto sgraziata per cui il contratto è sciolto, meglio che vai avanti a studiare e fai l’architetto, levati dai piedi”. Io però avevo ancora un asso nella manica. A Londra mi ero fatto costruire da un fabbro un tamburello a pedale perché ancora non si vendevano. Con quello, la chitarra a dodici corde, l’armonica e il kazoo, quella specie di trombetta spernacchiante andai davanti al teatro delle Vittorie: ero un uomo-orchestra! E lì mi metto a fare dei pezzi che io chiamo “protopunk”: Ma che bella città!, Salviamo il salvabile, Arrivano i buoni, Affacciati affacciati dedicata al Papa. E poi uno sfottò all’allora presidente Leone, intitolato Uno buono ».Funzionò?«Direi di sì. Sai, io in quel momento mi sentivo completamente perso...Avevo scritto Non farti cadere le braccia proprio per darmi forza.Anche se apparentemente quello era il mio primo disco avevo già fatto parecchi anni di gavetta e scritto molte canzoni per me e per altri autori. Ero convinto che quel disco fosse una cosa forte: c’erano gli arrangiamenti di Roberto De Simone, canzoni come Campi flegrei, Un giorno credi, Rinnegato… Fu per me la prima amara lezione: tu puoi fare anche una cosa bella ma se le radio non le passano, se i media come la Rai di allora non lo capiscono, per te è finita. E i tuoi sogni muoiono».Ma non andò così.«Mi notarono dei giornalisti di una rivista che si chiamava Ciao 2001. Mi invitarono a un festival che si teneva a Civitanova Marche (la “Rassegna di musica contemporanea”, ndr). C’era tutta l’intellighenzia musicale del tempo: Battiato, Claudio Rocchi, Alan Sorrenti versione “prog”. In quegli anni Sanremo era poco più di una recita parrocchiale: i giovani cercavano qualcosa di diverso e così nascevano i festival open air, i raduni collettivi. In quella situazione io suonai quei quattro, cinque pezzi che avevo fatto anche durante il mio spettacolino per strada. Quando scesi da quel palco ebbi la percezione che la mia vita era cambiata: ero davvero diventato un cantante».Che cos’era successo?«Per la prima volta ho sentito che il pubblico aveva capito e che, nonostante tutto, ce l’avrei fatta».Non è stato facile.«Non lo era, non lo è. Molti sono rimasti distrutti da questo meccanismo, i più sensibili come Luigi Tenco. Ma lo stesso Fabrizio De André, pur facendo parte del mondo della musica “importante”, lo guardava con diffidenza. Anche lui si sentiva diverso. Eravamo diventati amici perché si sentiva solidale con noi. Gli piaceva che io non avessi né manager né discografici intorno a me e che invece fossi circondato da amici d’infanzia, quelli del cortile».Però purtroppo non avete mai fatto qualche cosa insieme…«No, no, no. Lui si limitava solo a stare con noi con un bicchiere di whisky nella mano sinistra e la sigaretta nella destra e a darci dei consigli. Una volta mi disse: “Il giorno in cui avrai la percezione di non aver niente da dire è meglio che ti stai zitto!” (ride)».Poi tu sei diventato talmente famoso da essere il primo musicista in Italia a riempire gli stadi.«Sì, il primo fu nel ’78 a Napoli.Ricordo che i giornali titolarono “Bennato riapre gli stadi” perché negli anni precedenti tutti gli artisti stranieri avevano paura. Dicevano che l’Italia era un posto di pazzi dove il pubblico si divertiva a sfasciare tutto. Era successo con Led Zeppelin, Santana e Lou Reed. Poi, nel 1980, ho riempito anche San Siro».A proposito di giornali, la cover di questo disco si presenta come la pagina di un quotidiano. Perché?«Io mi sono disegnato molto spesso le copertine: quella de La torre di Babele o di Uffà! Uffa!. Stavolta ho pensato alla prima pagina di un giornale in cui gli strilli degli articoli sono i titoli delle canzoni. Mi è sempre piaciuta questa idea del cantastorie. Che è libero, dice sempre quello che vuole e così dà fastidio a tutti».Chi è invece il burattino senza fili?«Il burattino di Collodi non ha i fili: se ne rende conto quando arriva nel teatro di Mangiafuoco, tanto che Arlecchino, Colombina quasi si spaventano quando lo vedono. Lui non è condizionato da Mangiafuoco, dal potere. Io però cambio la morale ottocentesca. Alla fine Collodi immagina che il burattino diventi un ragazzino normale ben vestito e in linea con la morale del tempo. Io invece dico: “Attenzione! Quando diventerai un bambino a posto e inquadrato senza rendertene conto avrai mille fili invisibili che ti condizionano. E quindi sarai veramente un burattino nelle mani del potere anche se apparentemente ti sembrerà di essere libero».Tu invece hai sempre fatto di testa tua: persino un disco punk “Uffà! Uffà!” con i Gaznevada…«Sì, erano ragazzi di Bologna che mi piacevano. Andammo a fare un video a Locarno e stavamo in uno di quegli hotel per ricchi pieni di arazzi, sai… Però vedi, io ho un problema».Quale?«Non riesco a dormire bene nei letti normali e quindi dormo per terra. Si dorme meglio per terra che sui materassi a molle, tanto che poi sono stati banditi ma io ormai sono abituato così… In hotel tutti guardavano i Gaznevada perché erano vestiti in modo strano: creste, capelli colorati. Però uno del mio gruppo mi ha raccontato che ha sentito il portiere dell’albergo dire a un altro tipo: “Per quanto siano strani non sono niente rispetto a Bennato.Pensa che quando il cameriere è andato nella sua stanza stamattina l’ha trovato che dormiva per terra!”».A proposito di personaggi strani: in “Non c’è” fai un pezzo insieme a Morgan intitolato “Perché”. Perché?«Tra noi c’è grande intesa. Io e Morgan siamo squilibrati. Non so tra i due chi è più squilibrato. Io non ho bisogno di additivi, lo sono geneticamente. Quando andavo in giro con Tony Esposito ci chiedevano sempre se avevamo un po’ di roba.Noi perplessi, farfugliavamo qualcosa e quelli se ne andavano pensando che eravamo talmente fatti da non riuscire a parlare».Ti senti ancora un juke-box?«Non lo sono mai stato: ho scritto quella canzone per dire che non volevo diventarlo. Diventano juke-box quelli che accettano di fare cose che non fanno parte della loro anima come Elvis che alla fine, da rivoluzionario del rock’n’roll, era diventato un burattino nelle mani del colonnello Parker e del sistema».