Robinson, 28 marzo 2021
Graham Greene raccontato da Lawrence Osborne
Ogni famiglia dovrebbe avere un parente così: uno zio inquieto, stravagante, ribelle, che ha girato il mondo e lo racconta al ritorno dalle sue avventure. La famiglia della letteratura inglese ha un padre riconosciuto, Shakespeare, e uno che ne fa le veci, Dickens, ma il ruolo dello zio tormentato e geniale spetta a Graham Greene. «Ce ne rendiamo conto meglio adesso, a trent’anni dalla sua scomparsa», dice Lawrence Osborne, che dell’autore di Il potere e la gloria si proclama fedele discepolo e secondo alcuni potrebbe essere l’erede, per i romanzi che ha scritto (da La ballata di un piccolo giocatore a Cacciatori nel buio) e per la scelta di esplorare gli angoli più esotici della terra, tra cui Bangkok, dove vive (ne ha ereditato perfino il pigiama, come rivela nell’intervista). A lungo considerato uno scrittore di gialli, nonostante due candidature al Nobel nel 1966 e 1967, oggi Greene siede a pieno diritto tra i maestri della narrativa mondiale: «Nella seconda metà del ventesimo secolo, nessuno ci ha fatto viaggiare come lui», afferma Osborne, «dal Vietnam ad Haiti, da Cuba all’Africa, e dentro il cuore di tenebra dell’animo umano».Con questo degno “nipote” nei panni della guida, mettiamoci dunque, parafrasando uno dei suoi libri più belli, in viaggio con lo zio Graham.Cosa l’ha fatta diventare un fan di Greene, Osborne?«Essendo cresciuto come lui in una famiglia cattolica, mi colpiva il suo cattolicesimo. Ma solo più tardi, quando si è placata la mia fede, ho capito l’attrazione del suo progetto: disegnare una mappa del mondo post-imperiale britannico. Chiunque scriva in una lingua globale come l’inglese dovrebbe seguire questo cammino: non c’è altra scelta che rivolgere lo sguardo all’esterno».Concorda che è stato riscoperto o almeno rivalutato dopo la morte?«La penso così. Da vivo era forse troppo bravo per vincere il Nobel».Quale caratteristica lo distingue di più: il talento del narratore, lo stile o la capacità di esplorare le contraddizioni dell’animo umano?«Bisogna tenere le tre cose insieme, ma in primo luogo un romanziere deve saper raccontare storie, punto.Altrimenti rischia di diventare vittima della famosa battuta di Oscar Wilde: poverino, sa fare tutto quello che serve, tranne raccontare. La stroncatura definitiva».Resta qualcosa della sua lezione negli scrittori contemporanei?«Non molto. La maggior parte dei nostri autori odierni sono piuttosto provinciali, ossessionati dalle patologie occidentali intimiste. La sua reputazione, a posteriori, è paradossalmente cresciuta proprio perché i lettori ne ammirano la qualità narrativa rispetto al panorama attuale. La sua lezione è che nulla è importante come la questione del bene e del male: perché è al centro del cuore dell’uomo».Come è diventato amico della famiglia Greene?«Suo nipote, Graham C. Greene, scomparso di recente, era uno dei grandi agenti letterari di Londra. Per suo tramite ho conosciuto la generazione più giovane dei Greene, Alexander e la sorella Charlotte, che hanno una proprietà in Toscana, il Castello di Potentino a sud di Montepulciano, dove producono vino. Quando sono stato loro ospite lì nel 2018, mi hanno regalato due pigiami e due abiti firmati Brioni di Graham: mi vanno bene in modo impressionante, come un guanto».Greene scriveva per lo Spectator, storico settimanale conservatore, ma era affascinato da Fidel Castro.«Lo Spectator occupa una posizione speciale nelle lettere inglesi: pubblica scrittori di diverse tendenze, me incluso, per cui non è strano che Greene vi lavorasse. Quanto alle sue simpatie per Castro, che incontrò più volte, erano gli anni ’50-’60: per uno scrittore facevano parte dello spirito del tempo. Ma ha poi vissuto a lungo in Costa Azzurra, non esattamente un’enclave di sinistra».Cosa pensa del suo rapporto con Kim Philby, la spia britannica che lavorava per Mosca?«È possibile che Greene abbia lasciato lo spionaggio britannico perché aveva scoperto che Philby era una spia dei russi e non voleva denunciarlo. Di certo Kim gli piaceva: era un uomo affascinante e venivano dallo stesso ambiente».Non mancarono contraddizioni anche nelle sue amicizie, dal conservatore Evelyn Waugh al socialista Gabriel García Márquez…«A Waugh lo univano il cattolicesimo e l’appartenenza all’upper class inglese. È anche la mia cultura, per cui ne comprendo la componente estetica. Inoltre, Waugh aveva uno stile che Greene non poteva non amare, e viceversa. Quanto a Márquez, la sua fama deriva anche dalle sue idee politiche e anche questo incise nel loro rapporto».Quale è il suo romanzo preferito?«Non riesco a sceglierne uno: sono troppi quelli che adoro».Esaminiamone qualcuno: “Un americano tranquillo”, forse il più bel romanzo sulla guerra in Vietnam.«Il suo romanzo più giornalistico, personale e profetico. Per me che vivo in Estremo Oriente ha una considerevole eco. Quando soggiorno al Metropole di Hanoi, chiedo di stare nella stanza in cui dormiva Greene e mi accontentano sempre. Per l’occasione indosso anche il suo pigiama!».“Il nocciolo della questione”, ambientato in Sierra Leone, uno dei cento migliori romanzi inglesi del ventesimo secolo secondo Time…«Costruzione brillante, sebbene i dilemmi cattolici che sviluppa mi lascino un po’ freddo».“Fine di una storia”, nella Londra della Seconda guerra mondiale?«Bellissimo, sottovalutato, molto ammirato da Waugh. Anche qui angoscia cattolica, ma nella mia opinione con miglior risultato».“I commedianti”, su Haiti al tempo del dittatore Duvalier?«Uno dei più grandi romanzi politici mai scritti, al livello di Conrad».Senza dimenticare gli “intrattenimenti”, come li definiva Greene, fra tutti “Il nostro agente all’Avana”…«Sublime».Per ultimo un titolo che potrebbe essere il primo: “In viaggio con la zia”, in cui la protagonista strappa il nipote dalla sua esistenza suburbana trascinandolo in un vortice di intrighi attraverso l’Europa…«Meraviglioso. Un romanzo che porto con me in viaggio. La cura perfetta per salvarsi l’anima, specie nelle sale d’attesa degli aeroporti».